SEGNALAZIONE – Accordi di Amalia Frontali e Rebecca Quasi
Titolo: Accordi
Autore: Amalia Frontali, Rebecca Quasi,
Serie: Spin Off di “Centro”
Genere: Historical Romance
Narrazione: Terza persona
Tipo di finale: Concluso
Data di pubblicazione: 4 Marzo 2021
Editore: Self Publishing
TRAMA
Vienna, 1904 – Dorothea di Saxe-Coburg e Gotha-Kohary ha appreso da adolescente a riservare al pianoforte tutte le passioni del suo cuore. Alla veneranda età di ventitré anni, nonostante il lignaggio reale e la dote principesca, si trova a dover ridimensionare le proprie aspettative matrimoniali. Gunther di Schleswig-Holstein è un figlio cadetto con un titolo senza valore, che vanta un singolare talento per il violino e uno spiccato fiuto per gli affari. Alla soglia dei quarant’anni, ciò che gli manca è una moglie di ottima razza, con un patrimonio considerevole. Determinati ad affrontare il matrimonio con il proverbiale distacco che li accomuna, scopriranno che la musica è un linguaggio che non ammette simulazioni, perché anche gli accordi studiati nei minimi dettagli riservano talvolta bizzarri e impetuosi imprevisti.
CURIOSITA’ e BIOGRAFIE
Questo romanzo rappresenta uno spinoff di “Centro”, ambientato quattro anni prima. Lo abbiamo scritto per puro divertimento e per continuare a giocare a quattro mani, mescolando fatti e personaggi reali ad altri del tutto immaginari. Non volendo lasciare nulla di intentato, abbiamo anche inserito fatti inventati per i personaggi veri (e poi ci siamo scusate con loro ufficialmente, in una paginetta di note storiche in fondo al libro). Sempre in fondo al libro, ci sono alcune pagine di contenuti speciali, visto che i personaggi, durante la stesura non hanno smesso un attimo di tormentarci…
Amalia Frontali: lavora per pagarsi il mutuo, legge per vocazione e scrive per divertimento (collezionando incompiuti nei cassetti).
Rebecca Quasi è una signora di mezz’età che scrive per hobby.
Thomas Wood e Olive Ashdown sono stati amici, un tempo, quando il candore dell’infanzia nascondeva il divario sociale che li separava: lui, figlio dell’amministratore dei Conti di Warleigh, lei figlia minore del Conte, destinata a essere merce di scambio matrimoniale. L’innocenza è poi svanita, un giorno dopo l’altro, e un sentimento proibito ha preso il posto dei giochi tra bambini, fino alla notte che ha stravolto le loro vite. Ma, mentre Thomas fantasticava di cambiare la propria condizione per essere degno di lei, Olive era costretta a mentire pur di allontanarlo dalla vendetta del proprio padre. Sette anni dopo, Thomas fa ritorno in Inghilterra. Non è più il ragazzo indigente dal cuore spezzato, bensì un uomo facoltoso che si è lasciato il passato alle spalle, sebbene nei suoi pensieri più nascosti non abbia mai smesso di desiderarla.
Quando i segreti verranno alla luce, l’amore sarà forte abbastanza da abbattere ogni ostacolo?
RECENSIONE
<<Ti amo>> gli disse intrecciando le loro dita. La voce le uscì incredibilmente ferma, sebbene il cuore pompasse con violenza inaudita. << Ho amato solo te, il mio compagno di giochi, il mio amico, il mio primo e unico amore. Amerò solo te, l’unico uomo della mia vita.>>
Può un amore sbocciato tra mille difficoltà, nutrito di sguardi rubati, carezze agognate, quello che fa aumentare i battiti del cuore, accelerare il respiro e ardere di passione resistere al risentimento, alle bugie, allo scorrere del tempo? Se la penna è quella senza sconti e a volte lacerante di Estelle Hunt, lo scoprirete grazie alla sua ultima fatica, l’attesissimo secondo volume della serie degli amori vittoriani: Il ritorno di Thomas Wood. Un ritorno molto atteso anche dalla sottoscritta, quello di poter immergermi nuovamente nell’ottocento vittoriano attraverso la sua mirabile scrittura, che se con il primo volume di questa serie mi aveva incantata, di nuovo con questo secondo non ha deluso le mie aspettative. Sono felicemente tornata a osservare un po’ più da vicino, non nego con un innocuo tocco voyeuristico, la complicata famiglia Ashdown e contemporaneamente ho piacevolmente ritrovato molti personaggi conosciuti nel libro precedente. In una narrazione che alterna flashback a eventi presenti, l’autrice questa volta ci racconta, come solo lei sa fare, di un amore travolgente e struggente ma impossibile. Lo fa attraverso la figura di Olive, sorella di Rupert, figura che aveva mantenuto un basso profilo nel precedente romanzo ma sulla quale aleggiavano un alone di tristezza e malinconia che facevano presagire eventi importanti. Lady Olive Ashdown è una bambina nata negli agi ma privata di ogni attenzione o affetto. Sarà nella tenerezza dei giochi e della reciproca compagnia del figlio dell’amministratore della tenuta di campagna, Thomas Wood che Olive troverà calore e conforto. Un ragazzino allampanato, inizialmente guardingo poi affettuoso e protettivo con il quale instaurerà da subito un legame fortissimo senza avere consapevolezza del divario sociale esistente tra loro. Le loro rispettive solitudini saranno il terreno su cui germoglierà una profonda amicizia che nello scorrere degli anni vedrà tramutarsi gli abbracci spontanei, le carezze confortevoli, il prendersi per mano, in gesti che perderanno gradualmente l’innocenza dell’infanzia, ma avranno la sostanza del desiderio, dell’aspettativa, dell’irrazionalità, alimentando un amore potente, feroce e appassionato quanto possono esserlo i sentimenti giovanili.
Quante volte si era sentito morire per quell’amore folle e violento e quante volte era rinato al suono della sua voce, al tocco delicato delle sue mani. Fino a morire del tutto e per sempre, durante quell’unica, magica notte.
La bellissima campagna inglese della magione di Brighton Manor è la cornice perfetta allo sbocciare di questo sentimento che matura attraverso giochi sul fiume, ritrovi nelle radure, storie raccontate, messaggi e incontri segreti, tutti elementi di cui ho apprezzato contemporaneamente il romanticismo e il sapore del proibito, capaci di suscitarmi tenerezza e frustrazione insieme. La prima inevitabile davanti allo sbocciare di un amore che ha tutte le caratteristiche dell’impeto giovanile quali l’ardore, l’intensità, l’inesperienza e anche un tocco di ingenuità, la seconda acuita dalla battaglia che i ragazzi combatteranno strenuamente ma inutilmente contro i loro sentimenti, consapevoli una volta cresciuti di andare contro le regole sociali dell’epoca e accresciuta dal non potersi vedere, toccare o parlare liberamente. In questa narrazione la pioggia è un elemento che conferisce ulteriore drammaticità a particolari momenti delle vicende, quasi a simboleggiare le lacrime che inevitabilmente scorreranno nel susseguirsi degli eventi. Una pioggia scrosciante che assume più significati simbolici, rimarca dolorosamente le distanze di estrazione sociale, rappresenta la tempesta interiore che scuote gli animi dei due ragazzi ed ha ha il sapore del presagio, lasciando intuire il decorso drammatico delle vicende.
Il suo di cuore, sotto le sferzate di quell’addio, andò in pezzi. Immobile sotto la pioggia, le scrutò il viso un’ultima volta, per imprimerselo bene in mente. Non l’avrebbe più rivista, gli stava concedendo pochi attimi intrisi di pioggia e di dolore e lui bevve tutto, stordendosi di sofferenza.
Chi conosce questa autrice sa bene infatti che raggiungere la vetta comporta intraprendere sentieri ripidi, impervi, contorti, e in questo romanzo li ho percorsi tutti, consapevole che gli ostacoli sarebbero stati molti. Se nel precedente volume questi erano insiti all’interno della coppia di protagonisti, questa volta provengono da fuori, ma da molto vicino, da un mondo che non permette di colmare il divario sociale nemmeno in nome dei sentimenti e che considera la donna solo come merce di scambio nel mercato matrimoniale. È nella propria casa che Olive trova i più acerrimi oppositori alla sua felicità, che spezzeranno crudelmente il legame con Thomas, gettando entrambi in un tunnel di disperazione, in un oblio dei sensi in cui si limitano a sopravvivere più che vivere. È nella seconda parte del libro che i protagonisti si ritrovano più maturi ma segnati profondamente dalla loro separazione: il dolore che Thomas ha tramutato in risentimento e Olive in lacerante tristezza, riemergerà col ritorno di lui ed il loro incontro, ma non potrà niente contro i sentimenti che ancora abitano i loro cuori. Trovo sempre eccezionale come l’autrice riesca a trasmettere le emozioni dei suoi personaggi attraverso sguardi, silenzi, gesti, carezze, parole cariche di passione, il suo stile fortemente emozionale mi ha fatto toccare con mano la passione incontenibile prima e l’atroce sofferenza di entrambi dopo, logorati dagli anni di distanza, dall’aver dovuto soffocare prima l’amore e poi il dolore. Le vicende di Olive, spezzano il cuore, ma sebbene questa figlia addestrata ad obbedire ad una madre gelida, assoggettata da un padre padrone, ignorata dal fratello, allontanata dal proprio amore, possa all’apparenza sembrare fragile e remissiva, in realtà non lo è affatto. Di nuovo Estelle Hunt ci tramanda la forza di spirito delle donne, che nel caso di Olive sta nella capacità di sacrificio, nella rinuncia e nell’accettazione del suo destino a favore dell’uomo che ama.
Sì, Olive aveva ben presente cosa significava spegnersi, esaurirsi, perdere pezzi di cuore e vivere comunque. Aveva una crepa nera nel petto che pulsava mantenendola in una sembianza di vita. Thomas, invece, pareva aver dimenticato. Doveva essere felice, per lui, non era forse la felicità ciò che gli aveva augurato il giorno in cui gli aveva detto addio ?
Contemporaneamente Thomas un uomo che ha saputo trarre forza dalle sofferenze per elevarsi socialmente e realizzare i propri obiettivi, venendo a patti con verità taciute e segreti svelati si ritroverà a guardare oltre il proprio dolore, che nella giovinezza lo aveva talmente offuscato da renderlo egoisticamente cieco di fronte al proprio orgoglio ferito e al cuore spezzato. Grazie a questa incredibile autrice per averci regalato di nuovo uno storico perfettamente contestualizzato, con personaggi ad alta carica emotiva, che riescono a trarre forza dalle loro sofferenze, capaci di amare con intensa passione. Una storia d’amore struggente che diventa un giardino in cui nascondere messaggi sotto ad un vaso di piante profumate e se mi capitasse di trovarne uno vorrei trovarvi questo messaggio, che è un’universale verità:
<< L’amore è davvero la peggiore delle malattie e la migliore delle medicine. >>
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Rupert Ashdown è stato allevato per diventare il futuro conte di Warleigh, ma alla morte del padre erediterà una disastrosa situazione finanziaria. A quel punto un matrimonio di convenienza appare come l’unica soluzione per salvare la sua famiglia dalla bancarotta. Il dover sposare una figlia della borghesia, però, benché di singolare avvenenza e straordinaria ricchezza, gli appare come la più terribile delle sorti.
Dal canto suo, Philippa Hardy è stata educata affinché un giorno potesse convolare a nozze con un aristocratico, esaudendo così il desiderio dell’ambiziosa e spregiudicata madre. Conosce le regole della Società, sa quali sono i suoi doveri e accetta, seppur timorosa, il volere della propria famiglia. Quando tuttavia le viene presentato Rupert, il futuro marito, si convince che la felicità è a portata di mano: lui è giovane, affascinante e il suo sguardo l’accende di passione.
Per Rupert quella ragazzina borghese, che disprezza a causa delle origini, è soltanto il mezzo per avere un erede e risollevare le finanze di famiglia, ma non intende concederle nulla più che una gravidanza e un trattamento formale e cortese. Philippa, invece, lo ama già dal primo incontro, ha deciso che riuscirà a scalfire il cuore di ghiaccio del conte e non le importa del prezzo che dovrà pagare per riuscirvi
RECENSIONE
<<E’ giunto il momento che Philippa si sposi.>>
Sembra strano come un’unica frase possa racchiudere l’essenza di un intero romanzo eppure è così, se amerete questo libro tanto quanto l’ho amato io, non potrete ripensare a questo incipit senza far riaffiorare tutte le emozioni di questa lettura. La scrittura di questa autrice mi ammalia sempre, capace di scavare a fondo nei sentimenti umani, complice un’accuratezza nelle descrizioni, nei dialoghi e la ricercatezza dei dettagli capaci di evocare immagini e sensazioni che vi catapulteranno in piena epoca vittoriana, come è successo a me. Philippa giovane ma ricca fanciulla borghese, viene data in sposa appena sedicenne ad un altero nobile, il conte di Ashdown, per rimpinguare le borse del casato. Un matrimonio di natura puramente contrattuale, che si poggia su basi fragilissime quali il disprezzo di lui perché costretto a legarsi ad una parvenu, termine dispregiativo per indicare borghesi arricchiti senza una goccia di sangue blu, e la giovane età di lei, obbligata a sposarsi per volere materno. Queste premesse non impediranno all’amore di sbocciare ma sarà un viaggio tutto in salita costellato di scivoloni e rovinose cadute.
Malgrado i modi distanti, lei amava suo marito, viveva per un suo sorriso del quale non era mai stata destinataria. A volte sollevava l’angolo della bocca, ma era solo un accenno, il bagliore mendace di un riflesso. La omaggiava con la sua freddezza, a volte con il sarcasmo, in due occasioni l’aveva onorata con la passione, tuttavia esaurito il desiderio tornava a essere l’uomo scostante che non celava il disprezzo nei suoi confronti.
Rupert è il compendio del perfetto nobile inglese, un uomo avvenente, ammantato di eleganza e orgoglio, freddezza e arroganza, ne incarna certamente il fascino ma ahimè anche tutti i difetti. È un personaggio difficile da digerire, i cui comportamenti sono inizialmente inaccettabili da un punto di vista morale ma socialmente condivisi e adottati dalla maggior parte degli uomini del tempo.
Nonostante la prevedibile avversione che si può provare per lui fin dai primi capitoli, io non ho saputo resistervi perché l’autrice mano a mano lo scopre degli strati che compongono la sua algida freddezza, l’alterigia e la superbia, facendo scorgere sotto di essi una inaspettata fragilità e un cuore appassionato. Sono seppelliti in profondità sotto alla corazza modellata su di lui da una rigida educazione, che in realtà serve a tenere insieme un uomo diviso, incapace di far coesistere forza e debolezza.
La prima insita nella consapevolezza del suo lignaggio, la seconda quella di cui si sente vittima dinanzi all’amore, sentimento sconosciuto, un conflitto feroce che lo trascinerà in un buco nero esistenziale, da cui risalirà faticosamente.
Non immaginava, Philippa, che quel muro fosse stato eretto a difesa del suo ardore innocente, del suo profumo di primavera e del calore della sua pelle. Non sapeva quanto suo marito temesse il desiderio che gli ribolliva nel sangue, tanto da dover essere estinto prima che divampasse un incendio indomabile.
Tutte diverse tra loro ma accomunate da un’invidiabile tempra dello spirito, ho amato ognuna delle figure femminili del romanzo, donne di spessore tra le quali in particolare emerge prepotentemente la madre di Philippa, guardiana dei propri affetti dal pragmatismo quasi feroce ma necessario.
Philippa è l’emblema della desolante condizione femminile dell’epoca il cui motto è sopportare: fortunatamente l’ indole curiosa, vivace, impulsiva, appassionata, capace di trasmettere energia e che inconsapevolmente ammanta di luce chi le sta intorno, le consentirà di piegarsi ma non spezzarsi dinanzi alle sofferenze, le umiliazioni e le difficoltà che incontrerà sin dall’inizio della sua vita matrimoniale. Così come è stato appassionante ammirare il coraggio, la tenacia e la perseveranza con le quali cercherà in tutti i modi di conquistare l’amore del marito, tanto è stato doloroso assistere al susseguirsi di eventi che la trasportano inesorabilmente dalla fanciullezza all’età adulta, che a partire dal matrimonio abbasseranno il velo che fino ai suoi sedici anni aveva celato ai suoi occhi le difficoltà, le brutture e le ingiustizie del mondo reale.
Le parole di Ginevra divennero la chiave per dischiudere la porta del giardino in cui aveva vissuto fino ad allora. Un giardino molto piccolo, immerso in una perenne primavera, abbellito da giunchiglie, violette e margherite, dove il tempo era scandito da uccelli variopinti come non se ne erano mai visti. Oltre il muro di recinzione, però, si estendevano lande paludose nelle quali danzavano fuochi fatui e ribollivano acque limacciose.
Questo aspetto caratterizza entrambi i protagonisti che vedono scivolare via la spensieratezza, la fiducia e la vivacità della gioventù nello scontrarsi con tradimenti, bugie e dispiaceri, un passaggio che non ho potuto non ritrovare in me stessa, destabilizzante come la presa di coscienza che il mondo non è un giardino dove regna sempre la primavera, per usare le parole della scrittrice.
Persino i luoghi sono profondamente connessi allo sviluppo della vicenda e all’evoluzione interiore dei protagonisti, laddove la serenità e la felicità coniugale trova massima manifestazione nella magione di campagna, le cui descrizioni mi hanno fatta camminare su prati erbosi e sentire il profumo dell’erba, mentre Londra fa da scenografia agli eventi più drammatici e dolorosi per Philippa, quasi che il rientro nella capitale legittimi le più turpi consuetudini, ben nascoste dal grigiore cittadino.
Ed è così che questa coppia di sposi diventa l’incarnazione letteraria del contesto storico sociale che fa da sfondo alle loro vicende: Rupert e Philippa diventano i soggetti principali di un quadro, quello attraverso il quale Estelle Hunt dipinge in maniera impeccabile luci ma soprattutto ombre, della società inglese dell’epoca ,un sistema patriarcale che relegava le donne a un ruolo puramente decorativo e funzionale alla prosecuzione del casato, in cui molti individui di alto lignaggio indossavano la maschera della nobiltà come fosse un passepartout che consentiva di aprire le porte a qualsiasi comportamento, specie se se di natura illecita o depravata, conosciuti e accettati da tutti purché non ostentati.
A mio parere questo romanzo ha la completezza di un’opera studiata, accattivante, intensa, un canovaccio su cui l’autrice ha intessuto una storia d’amore molto travagliata ma appassionata, sensuale, romantica, magnetica, un libro che potrei rileggere molte volte e mi farebbe sempre emozionare. Addentratevi nelle tempeste che questo matrimonio vittoriano attraverserà, ne uscirete con il piacere di aver goduto di un piccolo capolavoro, la cui scrittura di alto livello e la rara raffinatezza racconta come molto spesso i limiti che non ci consentono di afferrare la felicità sono proprio quelli che ci costruiamo noi stessi.
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SEGNALAZIONE – Il ritorno di Thomas Wood di Estelle Hunt
Titolo: Il ritorno di Thomas Wood
Autore: Estelle Hunt
Serie: Spin Off di Un Matrimonio vittoriano
Genere: Historical Romance
Narrazione: Terza persona
Tipo di finale: Concluso
Data di pubblicazione: 26 Febbraio 2021
Editore: Self Publishing
TRAMA
Thomas Wood e Olive Ashdown sono stati amici, un tempo, quando il candore dell’infanzia nascondeva il divario sociale che li separava: lui, figlio dell’amministratore dei Conti di Warleigh, lei figlia minore del Conte, destinata a essere merce di scambio matrimoniale. L’innocenza è poi svanita, un giorno dopo l’altro, e un sentimento proibito ha preso il posto dei giochi tra bambini, fino alla notte che ha stravolto le loro vite. Ma, mentre Thomas fantasticava di cambiare la propria condizione per essere degno di lei, Olive era costretta a mentire pur di allontanarlo dalla vendetta del proprio padre. Sette anni dopo, Thomas fa ritorno in Inghilterra. Non è più il ragazzo indigente dal cuore spezzato, bensì un uomo facoltoso che si è lasciato il passato alle spalle, sebbene nei suoi pensieri più nascosti non abbia mai smesso di desiderarla. Quando i segreti verranno alla luce, l’amore sarà forte abbastanza da abbattere ogni ostacolo?
TEASER
Per la Società, il loro era un amore proibito.
Lei gli apparve sul marciapiede all’improvviso.
Thomas si avvicinò al finestrino della carrozza per accertarsi che non si trattasse dell’ennesimo miraggio, uno dei tanti che si erano susseguiti ai suoi occhi e nella sua mente durante il lungo esilio dall?inghilterra. Tuttavia quella chioma nera, la pelle d’alabastro e i tratti squisiti appartenevano inequivocabilmente a Olive Ashdown.
In un baleno tornò indietro nel tempo e venne afferrato dal medesimo strazio che lo aveva colto allora. Si sentì ugualmente tradito e umiliato, e la vide infine per ciò che era: una nobildonna egoista e superba.
Scese in strada per palesarsi e mostrale chi era diventato: non più il figlio di un domestico, né il ragazzino ingenuo e innamorato di un tempo. Lei lo fissò, dapprima con esitazione, quindi i suoi occhi si allargarono per lo stupore, mosse pochi passi, sollevò il braccio quasi a volerlo trattenere.
Thomas la guardò con freddezza, come se trovasse la sua vista ripugnante, eppure non riusciva a smettere di scrutarla né a impedire ai ricordi di ciò che erano stati di devastargli il cuore. Fu la voce soave che provenne dall’interno della carrozza a salvarlo, rompendo quella malia intossicante. Le gettò un’ultima occhiata, modellando le labbra in un sorriso crudele, prima di portare la mano alla falda del cilindro e inclinare la testa a mò di saluto.
Sparì nel veicolo, abbandonandola su quel marciapiede come lei aveva abbondato lui in mezzo ad una radura, sette anni prima. Poi diede ordine Al cocchiere di ripartire e tirò le tendine a schermare l’interno, a escluderla una volta per tutte dalla sua vita.
Sperò di non rivederla mai più, spero che accadesse di nuovo.
Le sorelle Vassemer sono cresciute in un’antica casa nel Lincolnshire con il padre, Sir Henry. In paese i Vassemer hanno una solida fama di eccentricità: Sir Henry è un astronomo e le figlie, invece di preoccuparsi di debuttare in società come qualunque signorina assennata, intendono perseguire le loro aspirazioni. Per fortuna la loro casa crolla, Sir Henry muore e le ragazze vengono smistate tra tre diversi tutori. Rachel finisce nella tenuta di Lord Julian Acton, Marchese di Northdall, un vedovo con due figli ormai grandi, un imperscrutabile domestico indiano e un’unica passione: i cavalli. Ma Lord Northdall non è un aguzzino e con miss Rachel raggiunge un accordo basato sul buonsenso. Miss Rachel può continuare a essere impresentabile finché vuole, ma in pubblico si comporterà da perfetta gentildonna. Miss Rachel accetta. No, sul serio, accetta. Purtroppo essere normali non è così semplice, quando sei una Vassemer, e Lord Northdall se ne accorgerà presto a sue spese. Unfit è una trilogia sulle disavventure di alcuni rispettabilissimi gentiluomini, che alla vita non chiederebbero altro che pace, tranquillità e le sacrosante gioie del patriarcato, vessati dalla mancanza di tatto di tre ragazze con il cervello pieno di sciocchezze, ambientata in un tempo migliore in cui gli uomini erano uomini e le donne erano piante da interno.
RECENSIONE
Se dovessi riassumere questa storia a qualcuno potrei dire: adorabile, divertente, acuta, sensualmente intelligente e storicamente divina. Quando si parla di un’opera di Miss Black preferisco essere diretta visto che è un’autrice che fa della schiettezza una delle sue più mirabili virtù.
Rachel Vassemer si trovava nell’osservatorio. Fu una fortuna, perché se si fosse già ritirata per la notte, come ogni brava gentildonna avrebbe dovuto fare per quell’ora, sarebbe certamente rimasta uccisa.
Mai come in questa fortuita coincidenza non essere stata una “brava gentildonna” è stato provvidenziale, se non addirittura salvifico, in senso letterale. Sopravvivere ad un incidente di questa portata potrebbe definirsi sicuramente un mezzo miracolo che però potrebbe anche comportare inattese conseguenze, soprattutto se ti chiami Rachel Vassemer, hai trentatre anni, sei di aspetto molto piacente, nubile per scelta e la tua unica passione è l’astronomia. Probabilmente un profilo di questo genere ai giorni nostri potrebbe appartenere ad una giovane donna con un discreto successo sociale. Peccato però che, nel caso specifico, la situazione sia destinata a complicarsi visto che sei nata nel 1855 e sei una donna.
La condizione della donna in epoca vittoriana è cosa abbastanza nota: doveva vivere una vita irreprensibile fin dalla giovinezza, attenendosi a uno stretto regolamento pensato per proteggere la sua reputazione, come una sorta di gabbia sociale nel quale occorreva muoversi con estrema fatica, quasi senza libertà. Paradossalmente era durante il fidanzamento che le ragazze erano più libere, in quanto venivano loro permessi piccoli privilegi e maggiori autonomie che, in seguito al matrimonio, sarebbero di nuovo scomparsi.
Una vita scandita da regole e etichette alle quali attenersi scrupolosamente per non incorrere in pettegolezzi, o se non peggio errori o tranelli, che macchiavano la reputazione in modo indelebile, condannando le ragazze a passare la vita in convento oppure da zitelle.
Fin da ragazza Rachel aveva deciso di non sposarsi, perché un marito avrebbe senza dubbio ostacolato il suo lavoro, che consisteva per lo più nel passare le notti attaccata al telescopio, buttare giù annotazioni ed eseguire astrusi calcoli a lume di candela.
Quello che appare come un piano lineare, se non quasi un inno alla libertà personale e alla piena realizzazione delle proprie attitudini, improvvisamente diventa per Rachel un’enorme complicazione, soprattutto se al seguito del crollo di casa sopraggiunge la presenza di un tutore, bello come mai, per giunta.
Lord Julian Acton, settimo Marchese di Northdall, è un uomo e un padre rispettabile che vibra di prestanza, alterigia e serietà. La sua passione son0 i cavalli, animali bellissimi e fieri proprio come lui, che si potrebbe paragonare ad uno dei suoi amati purosangue.
Il marchese ha quarantun anni e il genere di profilo che starebbe bene sulle monete. Niente baffi, però. Ho dedotto che il suo principale interesse sono i cavalli. Come lo so? È semplicissimo, mia cara Watson! È abbronzato, atletico e si è permesso di chiamare la mia caviglia “garretto”. Un caso incurabile di nobiluomo ossessionato dai quadrupedi che alleva, seleziona, incrocia e Dio sa cos’altro. Intuire la verità è stato un gioco da ragazzi. Oh, e potrebbe avermene parlato la mia cameriera.
La relazione tra Rachel Vessamer e Lord Northdall parte subito in orbita come una collisione astronomica, che potrebbe ricordare l’impatto di un meteorite, un asteroide o un gigantesco corpo celeste che si schianta sulla Terra, infiammando l’aria e dando vita ad un’energia incontenibile, come quella che ho percepito durante la lettura di questa storia.
Questa volta fu Northdall ad acchiapparla prima che cadesse. «Forse dovremmo tramortirla» considerò. Rachel si offese, ma poi, in un lampo di lucidità, capì che era una battuta. Emise un lungo sospiro rassegnato. «Sto per fingere di svenire» disse. «La ringrazio per questo barlume di buonsenso».
La miriade di detriti generata da questa collisione sono arrivati fino in cielo, quasi a formare nuvole di costellazioni iridescenti, che ho avuto il privilegio di ammirare dall’osservatorio di Rachel, indomabile ragazza che ho adorato come non mai.
Fiera, indipendente, assennata e dotata di un pungente sarcasmo che la rende una donna “impresentabile” per la sua epoca, Rachel appare quasi come l’emblema di una parte del genere femminile che in epoca vittoriana reclamava a suo modo diritti e libertà, forse senza farne neppure troppo mistero.
La sua natura ribelle, forgiata dal padre e perseguita dalle due sorellastre minori, è delineata con sagacia e bravura tramite ogni gesto e pensiero, in cui traspaiono forte personalità, ironia, intelligenza ed una scaltra educazione:
Rachel si sedette in poltrona con il busto eretto e con le caviglie incrociate. Era determinata a dimostrarsi educata, remissiva e un po’ stupida; tutte qualità che gli uomini apprezzavano sempre in una signorina.
Quale reazione può scaturire tra un gentiluomo rispettabile ed una giovane ribelle costretti a vivere insieme?
L’unico modo di rispondere a questa domanda è quello di leggere questo libro, in cui i due protagonisti fanno faville e scintille, brillando in spassosi battibecchi, acuminati come pezzi di un asteroide caduto sulla Terra, che cadendo al suolo prende fuoco, scatenando giochi pirotecnici ai quali l’abile regista Miss Black ci ha spesso abituati.
A sorprendermi, invece, sono stati i momenti privati di Rachel e Julian, in cui sguardi, respiri, silenzi, attese e sfioramenti hanno cesellato un’intima connessione dal sapore antico che mi ha regalato una veste nuova di questa scrittrice, che continua ogni volta a sorprendermi. Istanti descritti con mirabile bravura che mi hanno estasiata, attraverso il racconto della nascita di un sentimento che cresce svelandosi gradualmente, come l’immagine sensuale di un guanto che sfila dalla mano. Attimi che scaldano i sensi, soprattutto tramite il tatto, più volte protagonista di scene di straordinario potere sensuale.
Rachel prese la sua mano tra le mani. Gli sfilò il guanto, si sfilò i guanti. Northdall restò lì, steso su un fianco e adesso era lui l’animale ferito, in agonia. Rachel gli strofinò il pollice sul palmo e la sua agonia crebbe. Agonia dolora e pulsante, vergognosa e improvvisa.
Oltre al sapiente uso di immagini in cui i sensi sono i protagonisti assoluti, in UnFit le ambientazioni e la natura trovano un posto d’onore; scelta, a mio avviso, azzeccatissima che ha reso la lettura particolarmente coinvolgente. Antiche magioni normanne, tappezzerie broccate, fumose strade di città, cieli pieni di pioggia, foreste ombrose e prati sterminati sono scenari costanti che creano ad arte una coreografia che muta e racconta stati d’animo, pensieri, avvolgendo così il lettore in modo sublime, fino a ritornare a innescare olfatto e vista.
Il profumo autunnale di foglie cadute e degli ultimi fiori della stagione rendeva l’aria dolce e conferiva al paesaggio qualcosa di fin troppo gradevole. Era come camminare in un libro per bambini, dove tutto era bello, pulito e innocuo, ma con un tocco di trascuratezza attentamente distribuita. Era la forma più subdola di ostentazione che Rachel avesse mai incontrato.
Ad affiancare i protagonisti come solidi guardiani armati di personalità e carisma, personaggi secondari di fine fattura che reclamano a pieno titolo la loro attenzione. Tra questi Mr. Kayal, il maggiordomo di origini indiane che Lord Northdall considera come il suo più fidato amico, al quale lo lega un profondo senso di rispetto e stima. A seguire Rebecca, migliore amica di Rachel e Amalia, la sua cameriera personale.
Infine le sorelle di Rachel, Vera e Fortune Vassamer, “ragazze impresentabili” dalle attitudini pericolose, di cui preferisco non svelare nulla lasciando al lettore la gioia di conoscerle ma di cui sarà divertente scoprire le storie nei seguenti capitoli di questa divina trilogia, che è partita come un missile nell’universo e che è stato fantastico ammirare con Rachel dal suo (nuovo) osservatorio.
Rachel gli rivolse un sorriso dolce. «Siamo tutte donne rinascimentali, noi Vassemer».
Londra 1875. Rimasto vedovo, Leonard Lennox, conte di Moncrieff, ha bisogno di una governante che si occupi di Penelope, sua figlia, o meglio della figlia della sua defunta moglie, visto che non è certo di essere il padre della bambina. A tale scopo assume Sidonie Tate, vedova a sua volta, una donna ancora giovane, avvenente, dal carattere forte e con un passato non proprio cristallino. Spedire figlia e governante in una tenuta di campagna lontano da Londra pare la soluzione a tutti i suoi problemi. Pare…
RECENSIONE
Leggere “La Governante” è stato un breve ma impagabile viaggio attraverso la campagna inglese dell’800 che mi ha letteralmente incantata. Il plus che lo ha reso ancora più apprezzabile è stato il fatto che l’autrice sia stata in grado di dar vita ad uno storico insolito, originale, differente ma mai incoerente con l’epoca in cui è ambientato nonostante la storia si regga su argomenti già visti nel genere :il padrone irresistibilmente attratto e ricambiato dalla propria sottoposta, un amore in germoglio che deve scontrarsi con le regole sociali del tempo, circostanze non favorevoli e imprevisti.
Proprio per questo la bravura dell’autrice è stata doppia, solo la penna di Rebecca Quasi poteva renderla comunque unica, facendola completamente sua, regalandoci personaggi così ironici e originali da lasciare il segno, complice una scrittura sofisticata e talmente personale da risultare inconfondibile, quasi come un marchio di fabbrica. Il sorriso non mi ha abbandonata dalla prima all’ultima pagina, grazie a dialoghi divertentissimi, a tratti comici, una buona dose di tenerezza, romanticismo e piccoli colpi di scena, tutti miscelati ad arte e in giusta misura.
Lord Leonard Moncrieff è vedovo con un matrimonio infelice alle spalle, una figlia di nome Penelope la cui paternità però non è certa, offuscato dalla rabbia per l’orgoglio ferito ignora la bambina fin dalla nascita.
Probabilmente era la prima volta che rimaneva solo con Penelope, sicuramente era la prima volta che la mandava a chiamare e che si riferiva a lei dicendo mia figlia.
Fino a quando la sua strada si incrocia con Miss Tate, una governante un po’ atipica non proprio incline all’obbedienza, vedova anche lei, una donna con il pepe dentro ma che dato il suo ruolo, mostra all’esterno una facciata di irreprensibile serietà. È quando si relaziona alla piccola Penelope, figlia incerta del conte, che esce fuori la vera personalità della donna, pragmatica e cosciente della precarietà della condizione femminile del suo tempo e quindi anche della propria, ma che davanti alle emozioni non riesce a frenare la propria indole appassionata e vivace.
Però aveva riso spesso. Sì era lasciata andare. Sì era concessa una vacanza da se stessa. Aveva lasciato la governante chiusa nella sua stanza, la cinica vedova era scomparsa e al loro posto aveva partecipato al picnic la donna più sensuale e piena di vita che Leonard avesse mai incontrato. Una donna che non poteva avere. Ma che voleva disperatamente.
L’autrice ha tratteggiato personaggi irresistibili: un conte capace di guardare oltre alle apparenze e dalle notevoli doti seduttive, una governante irreprensibile ma col fuoco dentro e una bambina che nonostante le privazioni affettive è rimasta pura. La piccola Penelope mi ha conquistata da subito con la tenerezza di una creatura che desidera solo l’amore dei genitori, bisognosa d’affetto come ogni bambino.
<< Sid è severa, ma è anche buonissima. Mi abbraccia e mi bacia, non l’aveva mai fatto nessuno prima. È bellissimo essere abbracciati, non credi? >>
Sono solo i legami di sangue a misurare il valore dell’affetto familiare? Seppur nata dalla fantasia dell’autrice questa storia dà un esempio ante tempo, di come nessuna regola scritta o non scritta decreta cosa è famiglia, solo l’amore può farlo. Sebbene il racconto sia molto divertente e leggero, non fatevi ingannare, offre anche importanti connotazioni storico sociali : la prima è che questa è anche una storia di emancipazione femminile. In un’epoca in cui il ruolo delle donne era solo quello di contrarre matrimonio la governante lungimirante offrirà alla sua pupilla la possibilità di realizzarsi come essere umano coltivando i suoi “insoliti” talenti.
<< Perché? Perché vorrei che qualunque cosa le accada, abbia qualcosa che la renda felice. >>
La seconda è che a riprova che l’appartenenza ad una classe sociale è solo un abito che per niente rappresenta il valore intrinseco di chi lo indossa, la scrittrice dà una chiara visione dell’iniquità dei ruoli sociali del tempo: è la governante (appartenente ad un ceto inferiore) a dare la possibilità ad un padre e ad una figlia (nobili) che prima del suo arrivo non erano mai stati una famiglia, di aprire gli occhi sul valore delle cose. La trama evolve in maniera inaspettata e l’autrice sa dove aggiungere quel pizzico di azione, che insieme allo stile ineguagliabile che la contraddistingue, personaggi brillanti e un finale mozzafiato ci regala l’ennesima meraviglia. Il talento è anche questo, utilizzare ingredienti semplici e creare un gioiello di classe come questo, che è un libro sofisticato, frizzante, tenero e divertente. Una lettura che regala spensieratezza da non lasciarsi sfuggire per gli amanti del genere e non solo.
La vita non è facile per una giovane sanguemisto nella New York di fine Ottocento. Ma Charlotte è una ragazza forte: una sarta di talento, decisa a non scendere mai a compromessi e a mantenere la sua libertà e indipendenza. Tutto cambia quando la casa di fronte all’umile soffitta di Charlotte è presa in affitto da un misterioso straniero.
Colto e affascinante, il giovane dottor James Willmot si dimostra sorprendentemente a suo agio nei pericolosi bassifondi del Lower Est Side. Charlotte è conquistata dai suoi modi di gentiluomo, ma è anche attratta dalla sua parte più oscura e selvaggia. James, però, è un uomo con profondi segreti, che manderanno in crisi il mondo di Charlotte, costringendola a confrontarsi con dolorosi ricordi a lungo dimenticati. Quando realtà inimmaginabili si sveleranno agli occhi di Charlotte, solo l’amore potrà proteggerla. E solo l’amore le darà la forza di combattere per James, cambiando un crudele destino che sembra già scritto da secoli…
RECENSIONE
Mi sono approcciata a questo libro senza piena consapevolezza di cosa mi apprestavo a leggere, ma apprezzando molto altre opere dell’autrice sono andata in fiducia. Alla fine ho scoperto un fantasy storico, un po’ dark, un po’ romance, un po’ gotico, un libro dalle molteplici sfumature che mi ha catturata fin dalle prime pagine. Il prologo che ci presenta da subito il protagonista in un dialogo incalzante, ricco di tensione e a tratti inquietante è magistrale!
All’improvviso, oltre il mugghiare del mare e il battito assordante del proprio cuore, Robert udì un fruscio. Non era più solo.
L’abilità della scrittrice trova massima espressione soprattutto nel delineare il protagonista maschile, liberamente ispirato ad un personaggio di un classico della letteratura, la cui duplice personalità è delineata con una sensualità dirompente a volte intimidatoria e proprio per questo molto affascinante.
Era così per i Willmot: il male li corrodeva all’interno, lasciando intatto il loro fascino di fiori velenosi.
Questo dualismo si manifesta sebbene in modo differente anche nella protagonista femminile, divisa a metà tra due culture diverse.
Charlotte sapeva che la sua pelle era troppo scura per essere bianca, e troppo chiara per essere nera.
Questo aspetto li accomuna ma è anche quello che li divide, ma come sempre accade sarà l’amore a ripristinare l’equilibrio, ed è proprio questo processo di evoluzione emotiva quello che più mi affascina e al quale mi piace assistere all’interno del racconto. Di tutti i personaggi di contorno che ruotano intorno alla vicenda abbiamo piccoli scorci utili alla trama, nessuno di loro è approfondito in maniera particolare eppure catturano.
Uomini e donne, forti e fragili appartenenti a ceti sociali differenti, ambigui, oscuri, misteriosi, a volte soprannaturali, tutti tratteggiati di sfuggita ma in modo incisivo, tanto da far venire voglia di leggere un romanzo dedicato ad ognuno di loro. Sta anche qui secondo me la bravura dell’autrice, che nell’evoluzione della storia è stata in grado di darcene solo un assaggio, incastrarli al posto e nel modo giusto in modo da farceli immediatamente apprezzare per poi volerne sapere sempre di più.
Trovo molto particolare la capacità di questa autrice di maneggiare personaggi letterari, mitici e leggendari, conosciuti ai più e riuscire a farli completamente suoi. Nonostante infatti la presenza di numerosi elementi tipici della letteratura horror e fantasy, il tutto è così sapientemente intrecciato e narrato che il risultato è eccellente, molto equilibrato ed avvincente insieme. Sarebbe potuto risultare un insieme di troppi elementi mal amalgamati invece così non è stato, al contrario. La trama è ben articolata, i personaggi sono inseriti coerentemente nel contesto storico, la scrittura è fluida, i dialoghi ben strutturati e arguti, le descrizioni di persone, ambienti e luoghi creano un’atmosfera onirica, che vira dal misterioso al fiabesco, dal tenebroso al romantico.
Lo consiglio a chi ama mescolare più generi e trovarsi un risultato per niente banale. A mio parere infatti si tratta di un romanzo ben riuscito e lo dico da non appassionata di fantasy.
Posso dire alla fine che il risultato mi ha lasciata completamente soddisfatta, potrei veramente dire di esserne rimasta un po’ stregata anch’io.
Londra 1837 – Abilene Fairfax è abituata a dare scandalo al Ton e non si cura delle chiacchiere e alle maldicenze che la seguono da quando ha sposato il vecchio Conte di Stonefield. Arthur Lake è un amico d’infanzia della Duchessa di Clarendon, che ha riversato nella professione medica e nell’affetto per il figlio la sua passione e le sue speranze.
Quando le condizioni di salute del Conte si aggravano, Lady Stonefield decide che deve dare a tutti i costi un erede al casato. Contatta così il dottor Lake, affinché attesti il suo stato e la segua nella gravidanza e nel parto. Basta poco perché il senso etico e morale con cui Arthur Lake conduce se stesso e la professione medica vadano in collisione con la spregiudicatezza della contessa e ancora meno perché i due provino una forte attrazione reciproca. Il decesso del conte e la nascita di una femmina sconvolgeranno i piani di Abilene, separandola dalla figlia e allontanandola da Londra. Il destino però ha in serbo altri piani e nell’estate del 1841 le cose cambiano…
RECENSIONE
Credo che nessuno potrà restare indifferente a questa storia: troppo intensa, troppo poetica, troppo toccante per non sentire infinita ammirazione per uno dei personaggi femminili più complicati ed autentici mai letti fino ad oggi.
Provocatoria, coraggiosa, orgogliosa, combattiva, seducente, irriverente, non convenzionale e fiera.
Nessuno parlava bene di Lady Stonefield . I motivi della maldicenza e dei mormorii erano molteplici, alcuni fondati altri no. Una delle poche cose che non era oggetto di discussione riguardava il fatto che a diciassette anni avesse sposato lord Conrad Fairfax, conte di Stonefield, di una quarantina d’anni più vecchio di lei.
Un personaggio fuori contesto per l’epoca, in cui predominavano rigidi schemi di comportamento sociale. Una storia che mi ha intrigato, ricordandomi il fascino vittoriano della figura femminile, percepita come un essere puro, ricalcando l’ideale della “donna angelo”. Una visione celestiale che celebrava i corpi delle donne come templi da non infrangere, riducendone il ruolo alla procreazione e alla cura della casa. Era opinione comune che le donne dovevano accontentarsi del semplice ruolo di “ornamento della società” ed essere subordinate ai mariti. L’obbedienza era tutto quello che si richiedeva loro.
Abilene sorrise con una punta di malignità. Era troppo intuitiva. Era abituata a suscitare disgusto e riprovazione e aveva imparato a difendersi.
In un’epoca così, Abilene dirompe come una voce fuori dal coro, una contraddizione in termini: una donna dall’aspetto angelico ma capace di azioni discutibili fino all’immoralità.
«Non avete filtri, milady. Avevate molte maschere, ma filtri non ne avete mai avuti.»
Cosa succede se una donna di questa portata non riesce a raggiungere l’obiettivo che si è prefissata, e quando le spetterebbe finalmente l’ambita ricompensa dopo anni di umiliazioni?
Se quella donna è Abilene allora state certi che si è pronti a tutto, anche a oltrepassare il confine del lecito.
Quando Arthur Lake incontra per la prima volta Abilene Fairfax, ovvero la Contessa di Stonefield, ne rimane folgorato. I suoi modi diretti e poco consoni ad una donna del suo livello sociale fanno nascere nel medico un’irrefrenabile ed istintiva avversione:
Una voce del genere, bassa e roca, avrebbe dovuto appartenere a una donna corpulenta, e invece Abilene Fairfax era minuta ed esile. E biondissima, i capelli quasi bianchi. Emanava una luce sinistra. Aveva occhi di un azzurro liquido, pericolosi e scaltri, un’espressione indecifrabile nei lineamenti perfetti del viso e un atteggiamento di comando che faceva invidia a un uomo. Arthur la detestò.
La reciproca insofferenza li posizionerà su fronti opposti, acuendo le rispettive fragilità, ben nascoste ma pronte ad emergere inaspettatamente.
Da una parte Abilene aristocratica, fiera e spregiudicata dallo sguardo serafico ma affamata di libertà ed emancipazione da una vita ipocrita e umiliante, che l’ha imprigionata in una rete di pregiudizi e obblighi senza possibilità di redenzione:
Arthur avrebbe voluto farle notare che non tutti hanno la tempra per mordere il fuoco, che le persone normali, anche gli uomini, arretrano e temono, e hanno paura, soprattutto se hanno la sventura di perdere la testa per un uragano… Per non parlare del terrore di essere felici.
Dall’altra Arthur, borghese, altruista, un uomo perbene dotato di un’integrità morale indissolubile e di innata autorevolezza, ma anche bisognoso di affetto autentico, di calore umano:
«Arthur, hai ragione tu, sarebbe un inferno. Detesti la mia indipendenza e io non ho intenzione di obbedirti. Non sopporti di usare i soldi di Stonefield, mentre io trovo la cosa più che giusta, a tratti elettrizzante. Li ho guadagnati , credimi.»
Abilene e Arthur sono accomunati da sentimenti estremi, come la passione per le loro convinzioni, l’odio verso i codici morali dettati da una società ipocrita e cinica fondata su falsi stereotipi. Entrambi combattono a loro modo contro una collettività conformista che li giudica inadeguati e non all’altezza.
«Rispettare le regole rende freddi come sassi, invisibili. Nessuno si accorgerà di voi se obbedirete alle regole… e sarete più liberi degli altri.»
Un mondo che aveva fatto dell’apparenza una religione veniva quotidianamente ingannato dal suo stesso credo.
L’accurato ritratto della vita sociale di fine ottocento dipinto con fine maestria da Rebecca Quasi mi ha particolarmente impressionato perché racconta in modo perfetto un mondo in cui le luci dei salotti aristocratici si contrapponevano al buio delle sporche periferie, senza sconti. Un quadro che mostra il profondo divario sociale che è stato l’ombra più oscura dell’epoca, in cui piaghe come lo sfruttamento dei bambini e la prostituzione predominavano ovunque.
Ad impreziosire il racconto la presenza di personaggi secondari solidi ed acuti, alcuni dei quali incontrati nei precedenti romanzi dell’autrice come “Dita come farfalle” e “Scacco matto vostra grazia”. Tra questi, oltre a Emma, ho sinceramente amato Hector, forte, leale e capace di stare accanto ad Abilene con coraggio e saggezza. Un esempio di infinita e preziosa umanità. Non ultimi i bambini, Samuel e Rose, che irrompono sulla scena con la loro innocenza svelando verità stupefacenti.
«Io la trovo stupefacente.» «Addirittura stupefacente?» «Una donna che ride è…» poi Samuel aprì e chiuse la bocca in apnea, incapace di concludere il paragone perché lui, una donna capace di ridere, non l’aveva ancora conosciuta. «Splendente»
Abilene è un romanzo forte e toccante dai dialoghi pungenti, contornati da ironia e stupenda sensualità, peculiarità che amo particolarmente nei libri di Rebecca Quasi. Un’autrice che posso descrivere ormai fondamentale per me, perché capace ogni volta di instillarmi verità che mi arricchiscono e mi prendono per mano per farmi assumere la giusta prospettiva.
Un libro che mi ha travolta come un uragano e che non dimenticherò, facendomi amare la lettura ancora di più. Devo molto a questa autrice perché è anche grazie a lei che mi sono appassionata così tanto ai libri e colgo l’occasione per ringraziarla nel modo che mi è più congeniale, ovvero con le parole.
A mio avviso, uno dei romanzi più equilibrati e vicini alla perfezione che abbia mai letto.
Durante la lettura di questo libro ho avuto la sensazione di vivere un viaggio nel tempo, seduta su un treno d’epoca con i sedili in legno, un’atmosfera di tempi passati piena di fascino ma soprattutto anche di crudeli realtà, quelle che hanno contrassegnato i primi anni del Novecento del nostro paese. Una storia che mi ha davvero commossa per il realismo su scorci di vita che i nostri nonni hanno vissuto durante il ventennio fascista in Italia. Protagonista di questo romanzo è Adele, una ragazzina di umili origini che a causa della sua innocente avvenenza diviene vittima di una società ignorante e cinica in cui essere donna era più un difetto che una virtù, così colpevole da vedersi mandare in una casa di tolleranza a soli sedici anni, cambiando identità:
Infine lei Viola, perché era fugace come un pensiero, fresca come un fiore, formosa come lo strumento musicale e malinconica come una pennellata di rosso e blu fuse insieme. Tutti però la chiamavano Violetta, poiché era la più giovane.
A dire il vero, era un piccolo bordello di periferia, spalmato in verticale sull’ala laterale di un logoro palazzo che puzzava di piscio e povertà. Più che malfamato, pativa l’onta di sorgere in un quartiere miserabile e le persone che lo frequentavano sembravano macerie di guerra.
L’autrice ha descritto con grande sapienza ed intensità il degrado che caratterizzava questi posti, ed è stata in grado di farmi immaginare perfettamente gli ambienti del bordello “Mariposa” e le condizioni in cui le sue giovani abitanti erano costrette a vivere:
Adele, in arte Violetta, sedeva accanto ai clienti insieme alle compagne. Rapita dall’esibizione, inseguiva gli usignoli dal canto proibito e gli occhi si chiuderò per volare lontano, oltre i servizi che l’attendevano.
Il libro racconta la vita di Adele, costellata di dolore e abusi, priva dell’affetto di una famiglia che la ripudia senza remore. A dimostrazione di come la condizione della donna fosse davvero difficile soprattutto in caso di povertà, dove esistevano solo doveri e sottomissione.
Adele spiava il mondo dalle finestre di una casa chiusa, accartocciando il tempo tra un cliente e l’altro, depositando sul fondo di un’illusione il proprio avvenire.
Se da una parte c’era questa la condizione delle donne, dall’altra parte i giovani ragazzi, venivano mandati al fronte a morire senza speranza, inconsapevoli delle ragioni di un sacrificio che toglieva loro l’illusione di una vita felice. Sono le lettere di Filippo, giovane innamorato di Adele, ad avermi davvero colpita al cuore. Spaccati di vita in cui il giovane divenuto prigioniero del nemico racconta la sua disperazione e la paura di non rivederla, mostrando quanto l’attaccamento agli affetti fosse l’unico appiglio a resistere per non impazzire. Ammetto che più volte mi sono commossa davanti a questi passaggi:
Non mi abbandonare Adele e, anche se non mi ami, fai finta giusto per darmi conforto, almeno fino a quando non esco da qui. Ti penso, ti amo, ti sposo. Filippo
Un ritratto vero, autentico di un’epoca difficile, anni di miseria in cui l’ombra della guerra oscura le speranze e dove la quotidianità si priva di tutto fino al punto che cui vivere in un bordello poteva rappresentare una salvezza.
Durante tutto il libro, l’autrice ha finemente integrato la storia di Adele con gli accadimenti storici dell’epoca, capaci di evocare punti fissi nel tempo a tutti noi noti:
1922. In quell’anno moriva Giovanni Verga. “Una donna non è che come vuol essere.” Queste erano le parole che lo scrittore aveva messo tra le voluttuose labbra della sua Eva, quasi cinquant’anni, per sedare la folle gelosia di Enrico Lanti.
La storia della vita di Adele percorre mille vie che disegnano un universo fatto di incontri significativi, fughe e trasformazioni di identità alla ricerca di un posto nel mondo come a rappresentare il mito della dea Ecate, appartenente alla mitologia greca e legata alla fertilità e al ciclo della vita. Nell’iconografia classica Ecate viene raffigurata con forma triplice, di natura trina come fanciulla, madre e anziana riassunta spesso come dea del tempo e del destino. Ed è in questo simbolismo che ho colto il significato della storia di Adele, poi Violetta e poi Antea, tre figure accomunate dalla speranza di ritrovare un’amore perduto e mai dimenticato.
È un fantasma, è l’ombra che mi porto appresso, è l’amore straordinario mai diventato ordinario, la forza vitale che mi ha fatto andare avanti, crescere e diventare la donna che sono.
Un lungo percorso in cui speranza e rassegnazione si alternano, portandola via dalla realtà di un piccolo paese di campagna fino alla sfavillante Parigi degli anni d’oro della Bella Epoque:
Parigi aveva un volto di ferro battuto e vetri splendenti che riflettevano il cielo. Aveva strade che correvano all’orizzonte, insieme agli alberi e ai palazzi, e fiumi di persone a rotolarci dentro. Aveva una voce squillante e scavata di echi, sembrava ridere e piangere insieme. Aveva un profumo di burro fuso e fragrante di pane, ma anche un’insospettabile puzza urbana che nel naso di Adele rimane insoluta, come i grandi misteri della vita.
Un viaggio in cui il destino la troverà spesso impreparata.
“I tre volti di Ecate” non è stata una lettura semplice e forse non è un libro per tutti ma onestamente mi sento di consigliarlo spassionatamente.
Ho ammirato la potenza e la poesia di un libro a mio avviso straordinario, tanto ben scritto che ho creduto fosse tratto da una storia vera. Il dolore e la disperazione di una vita, quella di Adele, segnata da ferite mai sanate e raccontate con verità, senza drammaticità, senza clamore. Una storia da leggere anche per ripercorrere la storia del nostro paese e grazie alla quale magari riscoprire le nostre radici.
A questo, si aggiunge uno stile di scrittura sapiente, di un livello così raffinato da farmi percepire questo libro come una lunga poesia dedicata alla speranza, nonostante il dolore e un destino avverso.
La bellezza dei “I tre volti di Ecate” è proprio quella di offrire una luce capace di illuminare l’anima, tanto forte come solo l’amore più puro è in grado di fare. Un romanzo che mi ha arricchito profondamente e che porterò sempre con me