
FAME D’ARIA di Daniele Mencarelli
Titolo: Fame d’aria | |
Autore: Daniele Mencarelli | |
Serie: Autoconclusivo | |
Genere: Narrativa | |
Narrazione: Terza persona | |
Tipo di finale: Chiuso | |
Editing: Ottimo | |
Data di pubblicazione: 17 gennaio 2023 | |
Editore: Mondadori |
TRAMA
Tra colline di pietra bianca, tornanti, e paesi arroccati, Pietro Borzacchi sta viaggiando con il figlio Jacopo. D’un tratto la frizione della sua vecchia Golf lo abbandona, nel momento peggiore: di venerdì pomeriggio, in mezzo al nulla. Per fortuna padre e figlio incontrano Oliviero, un meccanico alla guida del suo carro attrezzi che accetta di scortarli fino al paese più vicino, Sant’Anna del Sannio. Quando Jacopo scende dall’auto è evidente che qualcosa in lui non va: lo sguardo vuoto, il passo dondolante, la mano sinistra che continua a sfregare la gamba dei pantaloni, avanti e indietro. In attesa che Oliviero ripari l’auto, padre e figlio trovano ospitalità da Agata, proprietaria di un bar che una volta era anche pensione, è proprio in una delle vecchie stanze che si sistemano. Sant’Anna del Sannio, poche centinaia di anime, è un paese bellissimo in cui il tempo sembra essersi fermato, senza futuro apparente, come tanti piccoli centri della provincia italiana. Ad aiutare Agata nel bar c’è Gaia, il cui sorriso è perfetta sintesi del suo nome. Sarà proprio lei, Gaia, a infrangere con la sua spontaneità ogni apparenza. Perché Pietro è un uomo che vive all’inferno. “I genitori dei figli sani non sanno niente, non sanno che la normalità è una lotteria, e la malattia di un figlio, tanto più se hai un solo reddito, diventa una maledizione.” Ma la povertà non è la cosa peggiore. Pietro lotta ogni giorno contro un nemico che si porta all’altezza del cuore. Il disamore. Per tutto. Un disamore che sfocia spesso in una rabbia nera, cieca. Il dolore di Pietro, però, si troverà di fronte qualcosa di nuovo e inaspettato. Agata, Gaia e Oliviero sono l’umanità che ancora resiste, fatta il più delle volte di un eroismo semplice quanto inconsapevole. Con “Fame d’aria”, Daniele Mencarelli fa i conti con uno dei sentimenti più intensi: l’amore genitoriale, e lo fa portandoci per mano dentro quel sottilissimo solco in cui convivono, da sempre, tragedia e rinascita.
RECENSIONE
Questa recensione nasce non solo dopo aver letto il nuovo libro di Daniele Mencarelli ma anche dopo aver assistito alla presentazione del medesimo presso la rassegna “Romans D’autore.”
Posso dire che sentir parlare questo scrittore è stata un’esperienza che ha dato un valore aggiunto alle riflessioni scaturite da questo libro, un piacere e un’emozione poter ascoltare un grande comunicatore come lui.
Lo stesso tipo di comunicazione che egli mette nelle sue pagine, senza sconti, senza fronzoli, diretta, asciutta, intensa, forte, vera.
Fame d’aria ne è un esempio, ultimo suo lavoro che tratta un tema di cui si parla poco o comunque superficialmente, come egli stesso afferma durante la presentazione.
Un romanzo incentrato sulla disabilità vissuta dal punto di vista genitoriale, che mostra senza pudore alcuno (e fa bene a farlo secondo me) quanto un’esistenza come quella del protagonista possa consumare fino a lasciare il vuoto dentro e intorno.
Pietro è un uomo a cui è capitato un figlio gravemente disabile, una disabilità che ha finito per fagocitare ogni altro aspetto della sua vita, schiacciato non solo dalla quotidianità con Jacopo, che necessita di assistenza assidua e continua, ma anche dalle gravi condizioni economiche in cui versa.
Un mix letale per qualsiasi esistenza che voglia significare vivere e non solo esistere appunto, letale per il cuore di Pietro che un po’ alla volta negli anni finisce per inaridirsi.
Un cuore che non sente più niente se non un odio profondo per un destino tragico.
In quel momento, anche il suo dolore, quello che lo accompagnava dalla prima volta in cui gli comunicarono che il figlio era malato, assunse altra forma. Da dolore a repulsione. A odio.
Un abito perfettamente cucito addosso a questa storia titolo e cover del libro che sebbene possano risultare inizialmente quasi disturbanti, risultano invece perfetti al termine della lettura.
Perché bisogna dirlo questa è una storia a tratti disturbante, come lo è lo stesso Pietro durante lo scorrere della vicenda, un uomo svuotato, cinico, duro fino quasi a essere brutale.
Non si può non comprendere però che ha tutte le ragioni per esserlo diventato, grazie ad una serie di flashback nella narrazione grazie ai quali intravediamo sempre più il fondo nero e buio del baratro in cui egli è imprigionato.
Ed è fotografando attraverso le parole un’esistenza come purtroppo ne esistono molte simili a quelle di Pietro e Jacopo che Mencarelli denuncia due grosse piaghe della società odierna: l’isolamento e l’abbandono.
Non ci sono persone accanto a questa famiglia ad alleviare le incombenze e le sofferenze di una vita completamente dedicata ad un altro essere umano che non può fare niente autonomamente né istituzioni.
Un urlo forte quello dell’autore contro l’indifferenza, il disinteresse e la discriminazione in cui versano molte famiglie che ogni giorno fanno i conti con la disperazione e a cui vanno i suoi ringraziamenti al termine del libro: ai dimenticati.
Quando Pietro ascoltò per la prima volta la voce di suo figlio esibirsi, ancora incerta ma piena di determinazione, in quelle due magnifiche sillabe, papà, si sentì realizzato come ogni uomo che si scopre riamato dal suo amore più grande. Poi venne la notte. Questa è l’immagine che Pietro ha del suo passato. Scese, senza furia, un tanto al giorno, una tenebra più fitta della morte.
Ecco perché il titolo del libro è incredibilmente centrato perché è proprio questa la sensazione che si avverte ad entrare nei pensieri di Pietro, la mancanza di ossigeno.
La sensazione che suscita vivere in una notte eterna come è la vita di questo personaggio è infatti l’apnea, e il buio evoca proprio uno spazio chiuso, piccolo, soffocante che sta a simboleggiare la vita del protagonista, cioè un’esistenza senza via d’uscita, una scatola chiusa in cui non filtra aria e da cui è impossibile uscire.
Ha fame d’aria. È come se la realtà gli si stringesse addosso.
Mencarelli racconta infatti un dolore a cui non c’è rimedio che mette alla prova qualsiasi residuo di umanità.
Ma spesso l’umanità stessa riesce a resistere dove non lo crederesti possibile, riesce ad assumere forme e modi inattesi, improbabili e impensabili, come un fiore che nasce dal cemento.
In questo caso assume le fattezze di persone incontrate per caso, in un paese sperduto e in declino come Sant’Anna del Sannio che l’autore immortala nel cuore del lettore in questo bellissimo passaggio:
Arroccata alla sua collina, illuminata da un sole stretto in mezzo a nuvole gigantesche, incombenti, Sant’Anna del Sannio si mostra nella sua piccolezza. Vista da così, nemmeno il cuore prosciugato di Pietro riesce a impedirsi quello che gli occhi comandano. È bella. Sant’Anna del Sannio è bella. Come quei presepi impolverati, buttati dentro scatole riposte in cantina, da anni utili a nessuno.
Calzante questo riferimento ad un presepe abbandonato, un posto in cui il futuro sembra non poter entrare e che è lo scenario ideale per Pietro che non può immaginare un domani diverso dal proprio presente.
Eppure proprio in questo piccolo paese dimenticato del Molise si nasconde la via della speranza, composta da una parola gentile, da un piatto caldo, da un sorriso sincero, da un panorama mozzafiato.
Piccoli gesti, sguardi.
Attimi, come quelli in cui Pietro trova un lieve sollievo, tra il sonno e il destarsi come se il sogno fosse l’unica via di fuga ad una realtà invivibile.
Ecco cosa vuole dirci l’autore: la bellezza è fatta di piccole cose ma sono proprio queste a salvarci.
E se non ci salvano per lo meno ci mostrano che può ancora esistere speranza.