IL MARE GUARISCE di Monica Peccolo

IL MARE GUARISCE di Monica Peccolo

Titolo: Il mare guarisce
Autore: Monica Peccolo
Serie: Autoconclusivo
Genere: Narrativa
Narrazione: Terza persona
Tipo di finale: Chiuso
Editing: Ottimo
Data di pubblicazione: 22 febbraio 2023
Editore: Self Publishing

TRAMA


“Lʼamore si costruisce attraverso i piccoli gesti quotidiani”

Le giornate di Viola, dopo il divorzio, sono occupate dalla cura della figlia Lisa, quattro anni, e dalla sua professione di veterinaria allʼacquario di Livorno.

Per Kai la ricerca scientifica è una vocazione; si è specializzato per lavorare in Antartide, nella base più estrema del mondo, dove trascorre molti mesi lʼanno come un eremita.

Nel Parco Nazionale dellʼArcipelago Toscano iniziano a verificarsi anomali spiaggiamenti di tartarughe, viene deciso di ricercarne la causa affidandosi a degli esperti. Così, i due scienziati, si trovano a collaborare per capire lʼorigine del preoccupante fenomeno.

Interrotti dal virus che ferma il mondo, anche le loro vite ne sono sconvolte. Ciò che è dato per scontato si ribalta e, la quarantena insieme, diventa unʼ ottima palestra per costruire il loro amore.

Perché anche nei tempi più bui è possibile scoprire la propria fonte di luce.

RECENSIONE


In occasione dell’ultimo FRI, l’evento che riunisce amanti ed estimatori del genere romance dello scorso marzo ad Assago mi è capitato tra le mani questo libro di Monica Peccolo, autrice livornese che è stata una piacevole scoperta. 

“Il mare guarisce” il libro in questione è un romanzo che potrei definire ibrido, a metà strada tra romance e narrativa sentimentale e che in virtù di questa sua duplice identità ho trovato originale. 

Finalmente una prospettiva un po’ nuova che ha saputo intrecciare elementi molto distanti tra loro in modo armonico. 

Le tematiche predominanti sono il rispetto e la cura dell’ambiente, nello specifico del mare e delle sue creature, che si intersecano nella narrazione con il lock down a cui ci ha costretti la pandemia. 

E devo dire che in entrambi gli scenari va dato il merito all’autrice di non essere mai scivolata nella retorica o nel giudizio nonostante si possano considerare due temi scottanti, sicuramente attuali ma spinosi. 

Non semplice costruire una trama su due basi così differenti eppure Monica Peccolo ci è riuscita dando a tutto l’ impianto narrativo un perfetto equilibrio. 

Ambientato nella meravigliosa cornice del Parco dell’arcipelago toscano ci presenta due tipi diversi di narrazione: la prima ci introduce alla scoperta dei protagonisti dal punto di vista professionale. 

Uno scienziato nomade e una veterinaria dell’acquario di Livorno, coinvolti in un viaggio di ricerca nelle isole dell’arcipelago che immerge il lettore nel fascino e nella bellezza di queste terre, grazie a descrizioni accurate dei paesaggi e delle attività professionali, degli animali e delle atmosfere che si vivono stando in mare, senza risultare mai noiose o prolisse, tutt’altro . 

Un mondo pieno di vita ma fragile, minacciato dalle azioni umane che i protagonisti Viola e Kai cercano di difendere con il loro lavoro. 

E poi accade che le parti si invertono e sembra essere la natura a costituire una minaccia per l’esistenza dell’uomo. 


«No, a casa tutto bene. Mi hanno detto… ho controllato in rete. Hanno esteso la zona rossa a undici comuni fra Lombardia e Veneto» li informò con tono allarmato. 


Dalle spiagge dell’ arcipelago ci ritroviamo nella casa di Viola, il primo lock down costringe Kai alla convivenza con la veterinaria e la figlioletta di 4 anni e si assiste ad un cambio di registro narrativo: meno descrizioni rispetto alla prima parte, più dialoghi, riflessioni interiori dei personaggi, si entra nei loro pensieri, paure, desideri, nella loro vita al di là del lavoro. 

L’autrice tratteggia due persone ordinarie, una mamma single lavoratrice che deve camminare in equilibrio tra la quotidianità e il mestiere di genitore e uno scienziato che ha scelto un altro tipo di isolamento come rifugio a paure e fallimenti passati, con i quali è immediato e spontaneo immedesimarsi. 

Due di noi insomma, catapultati però all’improvviso in un momento storico surreale ma necessario. 

È forte in questa parte del racconto la similitudine tra l’immobilità del momento storico e la quiete che caratterizza le profondità dell’ambiente marino. 


Viola pensò che, forse, nellʼera moderna per la prima volta i due emisferi, terrestre e acquatico, sperimentavano una vicinanza di quel tipo. Era quella la pace che si viveva immersi negli oceani e a cui le creature marine erano abituate? 


Entriamo nella quotidianità dei protagonisti che però non è scandita dalla normalità ma da una chiusura forzata di ogni attività umana all’interno della quale la relazione tra i due evolve non senza difficoltà proprio attraverso piccoli gesti quotidiani di condivisione e resilienza. 

Sono proprio questi a rappresentare la forza del racconto, i piccoli gesti quotidiani che sono gli stessi che scandiscono le nostre giornate e i nostri rapporti umani, a testimoniare che si possono narrare amore, forza e perdono senza grandi scenari o trame dagli intrecci troppo complicati, tenendo l’attenzione del lettore comunque alta. 

È in questa seconda parte del libro che si entra nella vita interiore dei personaggi e nelle difficoltà e nelle fragilità che si portano dietro, complicati dalle circostanze estreme del lock down. 


«Sono sempre complicati i rapporti familiari.» «Quando diventi genitore, analizzi spesso il tuo presente e il tuo passato, scopri e comprendi molto. 


Genitorialità, gestione dei conflitti, impegno ambientale, costruzione di una relazione, capacità di autoanalisi, resilienza, amicizia, professionalità, sacrificio… 

Tante tematiche ma un unico forte messaggio, semplice ma chiaro: 


«Questa prima pandemia dellʼera moderna ci ha ricordato che la nostra identità è profondamente intrecciata con quella degli altri ecosistemi del pianeta. L’idea che siamo parte della natura e non separati da essa, è un concetto che le nostre società ultra tecnologiche sembrano aver dimenticato.» 


Così alla fine della lettura il titolo del libro acquisisce agli occhi del lettore una doppia valenza: il mare è in grado di guarire l’animo umano per la bellezza e la quiete che è in grado di regalare a chi sa rispettarlo, e guarirà dai suoi mali se tutti insieme metteremo impegno e azioni concrete per fermare la sua distruzione i cui effetti stanno già minando la coesistenza tra uomo e natura. 


Per qualche minuto, ogni preoccupazione era accantonata dinnanzi all’immobile quiete del mare che tutto guariva. La Natura infettava e sanava: era così da milioni di anni. 


VYNNYKI BAZAR di Massimiliano Alberti

VYNNYKI BAZAR di Massimiliano Alberti

Titolo: Vynnyki Bazar
Autore: Massimiliano Alberti
Serie: Autoconclusivo
Genere: Narrativa
Narrazione: Prima persona
Tipo di finale: Chiuso
Editing: Ottimo
Data di pubblicazione: 16 dicembre 2022
Editore: Infinito Edizioni

TRAMA


Il Vynnykivskyi bazar è uno dei dodici mercati di Leopoli. Qui Oleh trascorre la sua infanzia aiutando i genitori al banco di frutta e verdura di famiglia. Fra quelle baracche di legno crescono anche Arseniy, Carpa e Mariya. Diventato adulto, Arseniy fa di tutto per imbarcarsi su una nave il cui equipaggio è dedito alla difesa dei cetacei attorno alle isole Fær Øer. Mariya supera l’esame per una borsa di studio che la porta a trasferirsi a Trieste. Se la massima aspirazione di Carpa è continuare a lavorare al bazar, per Oleh invece lasciare quelle mura diventa una sfida con se stesso fino a rendersi conto che l’unica via d’uscita è di darsi da fare sui libri. Ma il 24 febbraio 2022 la Russia invade l’Ucraina e qualcosa per loro e per la storia cambia per sempre.

RECENSIONE


È nel mese di dicembre che ho avuto l’occasione di assistere alla presentazione del terzo libro di Massimiliano Alberti che riesce sempre a vestire i suoi lavori con copertine particolari che catturano immediatamente la mia curiosità. 

Un titolo altrettanto insolito che subito fa immaginare un’ambientazione lontana, chissà se solo nello spazio o anche nel tempo mi sono chiesta. 

La lettura poi mi ha portata a considerare che il Vynnyki Bazar lo è in entrambi i casi. 

Un luogo e un tempo che diventano palcoscenico su cui mettere in scena un tema caro a questo autore e cioè la difficoltà di crescere e da cui il lettore trae un’ implicita riflessione: vivere richiede una certa dose di coraggio. 

Massimiliano Alberti con il garbo e la malinconica dolcezza che caratterizzano le sue narrazioni, racconta anche l’altra faccia della medaglia e cioè che avere coraggio implica avere anche paura. 

La paura di crescere, di cambiare, di restare indietro, di non farcela. 

Emozioni contrastanti, che incalzano soprattutto durante il passaggio all’età adulta, di cui l’autore ci narra attraverso le vicende del giovane Oleh e dei suoi amici tutti cresciuti nel contesto del Vynnyki Bazar, uno dei tanti mercati di Leopoli in Ucraina. 

Ragazzi che si trovano a sperimentare ognuno a modo proprio il difficile compito di diventare grandi e in qualche modo affrancarsi da un’esistenza fatta di contorni spesso ruvidi. 

Come è solito fare, questo autore racconta in particolare i turbamenti, le domande, i dubbi e le ribellioni dell’adolescenza, con una capacità narrativa che ha un sapore familiare e che mi fa sempre tornare indietro nel tempo, con un misto di nostalgia. 

Oleh, Arsiny, Marya e Carpa sembrano avere un destino già segnato come può esserlo quello di coloro che non nascono negli agi ma in un contesto più duro come quello che dà il titolo al romanzo, descritto con grande attenzione e cura di particolari. 

È un’ambientazione questa che il lettore “sente” oltre che immaginare, sicuramente a causa della attuale guerra in corso in territorio ucraino, ma a mio avviso anche e soprattutto grazie alla capacità stilistica dell’autore che con uno stile semplice e diretto trasporta il lettore all’interno di questo luogo come fosse una dimensione.  

Il Vynnyki Bazar infatti non è solo un mercato, un posto in cui lavorare o un’ambientazione, ma è il simbolo della paura e del coraggio che ci vogliono a lasciare quello che pensiamo essere il nostro posto nel mondo. 

Un microcosmo che non è accogliente né rassicurante ma che è comunque l’unica realtà conosciuta e che quindi è difficile lasciare perché andare verso l’ignoto spaventa. 


Nel mio immaginario il portone del bazar appariva così alto che non potei non chiedermi se fossi mai riuscito a vedere oltre.  


Se inizialmente Oleh non si pone nemmeno il problema di quale sarà la sua vita, è nel confronto con i suoi coetanei che comincia a insinuarsi in lui il timore di restare indietro, di rimanere fermo e di conseguenza solo. 


Le giornate a venire furono un cliché dei plurimi ritrovi presso le scalette colorate, con la sola differenza che più il tempo scorreva, più ognuno di noi portava con sé l’irrequietezza di voler correre verso una meta propria. 


Uno dei messaggi più significativi del libro è che per andare incontro al futuro e cercare di diventare qualcosa di più l’unico mezzo è la cultura. 

Uno strumento che faccia della vita non solo sopravvivenza ma realizzazione di sé, una spinta ad avere aspirazioni. 

Un particolare che il protagonista coglie in questo passo e che l’autore ha immortalato in immagine nella stessa cover del libro. 


Dopo pochi metri, però, qualcosa in alto mi distrasse. Incastonato sulla parete di una casa che si affacciava verso il bazar, c’era un mosaico con raffigurate due donne: una teneva fra le braccia un mazzo di spighe, l’altra aveva un libro aperto tra le mani. 


L’autore caratterizza personaggi molto diversi tra loro per cui è impossibile non provare empatia o identificarsi con essi. 

Ripercorriamo le stesse fragilità che spingevano anche noi da ragazzi a mostrarci più in gamba, più interessanti e più forti di quello che in realtà eravamo. 

Il libro è breve perché come lo stesso autore mi ha raccontato il suo era il desiderio di dare alla storia un’impronta da sceneggiatura ma ciò non toglie che sia ricco: ritroviamo un’Ucraina che conserva ancora le tracce del suo legame con la Russia, i movimenti politici che guardano all’ingresso in Europa, ci sono l’amata Trieste, la durezza della vita in un paese che cerca di affermare una propria identità e la speranza di renderla migliore. 

E infine come tristemente la cronaca ci racconta c’è la guerra. 

Sarà proprio il conflitto tuttora in corso a mettere i ragazzi del bazar ormai adulti davanti al destino che li attende, riportando i desideri passati, le paure e i progetti su tutt’altro piano. 


Ma a un tratto quel Paese che guardavano con malinconia, come quando ci si incanta davanti a un carillon, smise di suonare il tenero motivo della loro infanzia. I confini dell’Ucraina avevano iniziato a scricchiolare e dai telegiornali traspariva l’orribile presagio che la terra stesse per staccarsi fra due realtà. 


 

FAME D’ARIA di Daniele Mencarelli

FAME D’ARIA di Daniele Mencarelli

Titolo: Fame d’aria
Autore: Daniele Mencarelli
Serie: Autoconclusivo
Genere: Narrativa
Narrazione: Terza persona
Tipo di finale: Chiuso
Editing: Ottimo
Data di pubblicazione: 17 gennaio 2023
Editore: Mondadori

TRAMA


Tra colline di pietra bianca, tornanti, e paesi arroccati, Pietro Borzacchi sta viaggiando con il figlio Jacopo. D’un tratto la frizione della sua vecchia Golf lo abbandona, nel momento peggiore: di venerdì pomeriggio, in mezzo al nulla. Per fortuna padre e figlio incontrano Oliviero, un meccanico alla guida del suo carro attrezzi che accetta di scortarli fino al paese più vicino, Sant’Anna del Sannio. Quando Jacopo scende dall’auto è evidente che qualcosa in lui non va: lo sguardo vuoto, il passo dondolante, la mano sinistra che continua a sfregare la gamba dei pantaloni, avanti e indietro. In attesa che Oliviero ripari l’auto, padre e figlio trovano ospitalità da Agata, proprietaria di un bar che una volta era anche pensione, è proprio in una delle vecchie stanze che si sistemano. Sant’Anna del Sannio, poche centinaia di anime, è un paese bellissimo in cui il tempo sembra essersi fermato, senza futuro apparente, come tanti piccoli centri della provincia italiana. Ad aiutare Agata nel bar c’è Gaia, il cui sorriso è perfetta sintesi del suo nome. Sarà proprio lei, Gaia, a infrangere con la sua spontaneità ogni apparenza. Perché Pietro è un uomo che vive all’inferno. “I genitori dei figli sani non sanno niente, non sanno che la normalità è una lotteria, e la malattia di un figlio, tanto più se hai un solo reddito, diventa una maledizione.” Ma la povertà non è la cosa peggiore. Pietro lotta ogni giorno contro un nemico che si porta all’altezza del cuore. Il disamore. Per tutto. Un disamore che sfocia spesso in una rabbia nera, cieca. Il dolore di Pietro, però, si troverà di fronte qualcosa di nuovo e inaspettato. Agata, Gaia e Oliviero sono l’umanità che ancora resiste, fatta il più delle volte di un eroismo semplice quanto inconsapevole. Con “Fame d’aria”, Daniele Mencarelli fa i conti con uno dei sentimenti più intensi: l’amore genitoriale, e lo fa portandoci per mano dentro quel sottilissimo solco in cui convivono, da sempre, tragedia e rinascita.

RECENSIONE


Questa recensione nasce non solo dopo aver letto il nuovo libro di Daniele Mencarelli ma anche dopo aver assistito alla presentazione del medesimo presso la rassegna “Romans D’autore.” 

Posso dire che sentir parlare questo scrittore è stata un’esperienza che ha dato un valore aggiunto alle riflessioni scaturite da questo libro, un piacere e un’emozione poter ascoltare un grande comunicatore come lui. 

Lo stesso tipo di comunicazione che egli mette nelle sue pagine, senza sconti, senza fronzoli, diretta, asciutta, intensa, forte, vera. 

Fame d’aria ne è un esempio, ultimo suo lavoro che tratta un tema di cui si parla poco o comunque superficialmente, come egli stesso afferma durante la presentazione. 

Un romanzo incentrato sulla disabilità vissuta dal punto di vista genitoriale, che mostra senza pudore alcuno (e fa bene a farlo secondo me) quanto un’esistenza come quella del protagonista possa consumare fino a lasciare il vuoto dentro e intorno. 

Pietro è un uomo a cui è capitato un figlio gravemente disabile, una disabilità che ha finito per fagocitare ogni altro aspetto della sua vita, schiacciato non solo dalla quotidianità con Jacopo, che necessita di assistenza assidua e continua, ma anche dalle gravi condizioni economiche in cui versa. 

Un mix letale per qualsiasi esistenza che voglia significare vivere e non solo esistere appunto, letale per il cuore di Pietro che un po’ alla volta negli anni finisce per inaridirsi. 

Un cuore che non sente più niente se non un odio profondo per un destino tragico. 


In quel momento, anche il suo dolore, quello che lo accompagnava dalla prima volta in cui gli comunicarono che il figlio era malato, assunse altra forma. Da dolore a repulsione. A odio. 


Un abito perfettamente cucito addosso a questa storia titolo e cover del libro che sebbene possano risultare inizialmente quasi disturbanti, risultano invece perfetti al termine della lettura. 

Perché bisogna dirlo questa è una storia a tratti disturbante, come lo è lo stesso Pietro durante lo scorrere della vicenda, un uomo svuotato, cinico, duro fino quasi a essere brutale. 

Non si può non comprendere però che ha tutte le ragioni per esserlo diventato, grazie ad una serie di flashback nella narrazione grazie ai quali intravediamo sempre più il fondo nero e buio del baratro in cui egli è imprigionato. 

Ed è fotografando attraverso le parole un’esistenza come purtroppo ne esistono molte simili a quelle di Pietro e Jacopo che Mencarelli denuncia due grosse piaghe della società odierna: l’isolamento e l’abbandono. 

Non ci sono persone accanto a questa famiglia ad alleviare le incombenze e le sofferenze di una vita completamente dedicata ad un altro essere umano che non può fare niente autonomamente né istituzioni. 

Un urlo forte quello dell’autore contro l’indifferenza, il disinteresse e la discriminazione in cui versano molte famiglie che ogni giorno fanno i conti con la disperazione e a cui vanno i suoi ringraziamenti al termine del libro: ai dimenticati. 


Quando Pietro ascoltò per la prima volta la voce di suo figlio esibirsi, ancora incerta ma piena di determinazione, in quelle due magnifiche sillabe, papà, si sentì realizzato come ogni uomo che si scopre riamato dal suo amore più grande. Poi venne la notte. Questa è l’immagine che Pietro ha del suo passato. Scese, senza furia, un tanto al giorno, una tenebra più fitta della morte. 


Ecco perché il titolo del libro è incredibilmente centrato perché è proprio questa la sensazione che si avverte ad entrare nei pensieri di Pietro, la mancanza di ossigeno. 

La sensazione che suscita vivere in una notte eterna come è la vita di questo personaggio è infatti l’apnea, e il buio evoca proprio uno spazio chiuso, piccolo, soffocante che sta a simboleggiare la vita del protagonista, cioè un’esistenza senza via d’uscita, una scatola chiusa in cui non filtra aria e da cui è impossibile uscire. 


Ha fame d’aria. È come se la realtà gli si stringesse addosso. 


Mencarelli racconta infatti un dolore a cui non c’è rimedio che mette alla prova qualsiasi residuo di umanità. 

Ma spesso l’umanità stessa riesce a resistere dove non lo crederesti possibile, riesce ad assumere forme e modi inattesi, improbabili e impensabili, come un fiore che nasce dal cemento. 

In questo caso assume le fattezze di persone incontrate per caso, in un paese sperduto e in declino come Sant’Anna del Sannio che l’autore immortala nel cuore del lettore in questo bellissimo passaggio: 


Arroccata alla sua collina, illuminata da un sole stretto in mezzo a nuvole gigantesche, incombenti, Sant’Anna del Sannio si mostra nella sua piccolezza. Vista da così, nemmeno il cuore prosciugato di Pietro riesce a impedirsi quello che gli occhi comandano. È bella. Sant’Anna del Sannio è bella. Come quei presepi impolverati, buttati dentro scatole riposte in cantina, da anni utili a nessuno. 


Calzante questo riferimento ad un presepe abbandonato, un posto in cui il futuro sembra non poter entrare e che è lo scenario ideale per Pietro che non può immaginare un domani diverso dal proprio presente.  

Eppure proprio in questo piccolo paese dimenticato del Molise si nasconde la via della speranza, composta da una parola gentile, da un piatto caldo, da un sorriso sincero, da un panorama mozzafiato. 

Piccoli gesti, sguardi. 

Attimi, come quelli in cui Pietro trova un lieve sollievo, tra il sonno e il destarsi come se il sogno fosse l’unica via di fuga ad una realtà invivibile. 

Ecco cosa vuole dirci l’autore: la bellezza è fatta di piccole cose ma sono proprio queste a salvarci. 

E se non ci salvano per lo meno ci mostrano che può ancora esistere speranza. 

THE SPARE-IL MINORE di Prince Harry

THE SPARE-IL MINORE di Prince Henry

Titolo: The Spare-Il minore
Autore: Prince Harry
Serie: Autoconclusivo
Genere: Autobiografia
Narrazione: Prima persona
Tipo di finale: Chiuso
Editing: Ottimo
Data di pubblicazione: Gennaio 2023
Editore: Mondadori

TRAMA


È stata una delle più strazianti immagini del Ventesimo secolo: due ragazzini, due principi, che seguono il feretro della madre sotto gli occhi addolorati e inorriditi del mondo intero. Mentre si celebrava il funerale di Diana, principessa del Galles, miliardi di persone si chiedevano quali pensieri affollassero la mente dei principi, quali emozioni passassero per i loro cuori, e come si sarebbero dipanate le loro vite da quel momento in poi. Finalmente Harry racconta la sua storia. Con la sua cruda e implacabile onestà, “Spare. Il minore” è una pubblicazione epocale. Le sue pagine, dense di analisi e rivelazioni, sono frutto di un profondo esame di sé e della consapevolezza – conquistata a caro prezzo – che l’amore vince sempre sul lutto.  

RECENSIONE


The spare, il minore. O anche la riserva. An heir and a Spare, un erede e la sua riserva.

È così che si è sentito per tutta la vita un ragazzo dai capelli rossi, una riserva. Qualcuno che è nato solo per fare da eventuale rimpiazzo al primogenito. Non aspettatevi rivelazioni sconvolgenti da The Spare, che è in realtà un libro di memorie del principe Harry, il suo punto di vista su avvenimenti accaduti all’interno  della sua famiglia.

La storia è narrata in prima persona da Harry, e non è da tutti i giorni sentire un reale, o meglio ex reale, che parla di sé e della sua famiglia come se fosse davanti ad una birra al pub con amici. La vera protagonista di The spare è la mamma di Harry, la principessa Diana: viene citata spessissimo, ed è evidente come Harry ancora soffra per la perdita dell’amatissima  madre.

Provate ad immaginare un ragazzino di 12 anni che non può nemmeno piangere in pubblico, che deve controllare le sue emozioni, e che porta dentro di sé questo enorme fardello per tutta la vita. Provate ad immaginare che questo ragazzino è un principe, che suo padre è anche un bravo papà, ma piuttosto anaffettivo, un uomo che non sa come dimostrare il suo affetto ai figli. Verso suo padre però Harry ha anche buone parole, e lo giudica come un uomo in fondo buono, uno che ha sempre lavorato, un ambientalista bullizzato dai media.


Da decenni lottava   per mettere in guardia la gente sul cambiamento climatico, senza mai cedere, nonostante venisse crudelmente deriso dalla stampa come una Cassandra isterica”.


Non mancano aneddoti divertenti come re Carlo che, stufo dei litigi fra i figli, dice: “ Basta ragazzi, fatemi passare in pace i miei ultimi anni” o anche l’escursione  di Harry al Polo Nord con conseguente congelamento delle parti basse e qualcuno che gli suggerisce di mettere la crema di Elizabeth Arden.

Non manca ovviamente la regina Elisabetta, al quale Harry chiede anche l’approvazione  di poter tenere la barba durante il matrimonio, il principe William che da compagno di giochi e di scorribande diventa quasi un nemico divorato dalla competizione col fratello, fino all’ incontro con Megan e la decisione di abbandonare il Regno Unito per fuggire dai paparazzi.

Non è stato semplice accostarmi a questa lettura, confesso di aver pensato: “ “ Ecco le memorie di un povero miliardario che vuole lavare in pubblico i panni sporchi della sua famiglia e ricavarci qualche soldino”.

In realtà ho riflettuto su quanto Harry si sia davvero sentito una ruota di scorta per tutta la vita, di quanto la perdita della madre lo abbia profondamente condizionato e lo abbia spinto ad essere anche così rivoluzionario nel decidere di sconvolgere totalmente la sua vita. Ci sono molte pagine dedicate alla sua esperienza nell’esercito, al volontariato, agli Invictus games nati per aiutare i veterani e le loro famiglie.

È come se Harry avesse voluto raccontare ogni minima parte della sua vita, come per liberarsi di un peso e confidarsi con un amico. A volte anche con ingenuità, e con un tono quasi “neutro”, come se non volesse lasciar trasparire troppe emozioni. Anche se le emozioni vengono fuori quando affronta il tema dei paparazzi, giudicati colpevoli della morte di Diana e di aver perseguitato sua moglie Megan.


Credevo che attraversare il tunnel avrebbe portato la fine, o una breve cessazione del dolore, del decennio di implacabile dolore”.


La lettura mi ha emozionato, così come sentir parlare della tanto amata Principessa Diana, la regina di cuori di un intero popolo. Sicuramente ogni famiglia ha i suoi problemi, ed Harry ha infranto ogni regola di protocollo della famiglia reale. “ Mai spiegare, mai commentare”: lui invece ha davvero rivoluzionato questo concetto.

Chiunque voglia leggere questo libro deve abbandonare ogni pregiudizio e cercare di dimenticare che a scriverlo è stato un ex reale. L’autore è solo una persona alla disperata ricerca di un’identità e del proprio scopo nella vita.


Quando qualcuno di questa famiglia scapperà e comincerà a vivere?”


                 

L’AMICO RITROVATO di Fred Uhlman

L’AMICO RITROVATO di Fred Uhlman

Titolo: L’amico ritrovato
Autore: Fred Uhlman
Serie: Autoconclusivo
Genere: Narrativa
Narrazione: Prima persona
Tipo di finale: Chiuso
Editing: Ottimo
Data di pubblicazione: 27 dicembre 2012
Editore: Feltrinelli

TRAMA


Nella Germania degli anni Trenta, due ragazzi sedicenni frequentano la stessa scuola esclusiva. L’uno è figlio di un medico ebreo, l’altro è di ricca famiglia aristocratica. Tra loro nasce un’amicizia del cuore, un’intesa perfetta e magica. Un anno dopo, il loro legame è spezzato. “L’amico ritrovato” è apparso nel 1971 negli Stati Uniti ed è poi stato pubblicato in Inghilterra, Francia, Olanda, Svezia, Norvegia, Danimarca, Spagna, Germania, Israele, Portogallo. Introduzione di Arthur Koestler.

RECENSIONE


Ci sono temi e argomenti di tale durezza e dolore a volte che si pensa sia possibile parlarne solo in certi termini, come se la violenza e l’odio potessero essere raccontati solo mostrandola spietatamente e senza filtri. 

Non è così. 

Spesso si può parlare di dolore solo facendolo filtrare tra le righe, come un sottofondo che fa capire la drammaticità di certi eventi proprio invece grazie a parole del tutto opposte: quelle sull’amore, sui sogni, sull’amicizia, sulla giovinezza. 

Fred Hulman lo ha fatto, raccontando di un’amicizia tra due sedicenni nella Germania degli anni più terribili della storia. 

L’amico ritrovato racconta attraverso gli occhi e i ricordi di Hans ormai adulto la sua profonda per quanto breve amicizia con un nobile coetaneo ai tempi della scuola, Konradin, conte di Hohenfels. 


Poi con un gesto stranamente goffo ed impreciso, mi strinse la mano tremante. “Ciao, Hans,” mi disse e io all’improvviso mi resi conto con un misto di gioia, sollievo e stupore che era timido come me e, come me, bisognoso di amicizia. 


Di per sé le amicizie formatesi in giovinezza tendono a essere fatte di una lega dura, solida nella sua costruzione ma tenera nella sostanza composta di istinto, cuore, genuinità e sogni, perché la realtà delle esperienze non hanno ancora intaccato la purezza dello spirito. 

Se però a tutto ciò aggiungiamo il fatto che i due ragazzi in questione sono il figlio di un medico ebreo e il rampollo di una nobile famiglia filonazista negli anni 30 allora un legame così può assumere connotazioni ancora più importanti. 

Ce la farà un affetto così forte come quello tratteggiato a resistere ad un background agli antipodi, alle diversità di pensiero, di religione, al condizionamento delle famiglie, all’ideologia nascente e dilagante del disprezzo e dell’odio razziale? 

Tutto questo è condensato in poche pagine, perché più che un romanzo questa è una novella che però ha tutte le caratteristiche del romanzo, solo in miniatura, come viene spiegato nella prefazione: uno stile molto descrittivo, tanto da immergere il lettore nei verdi paesaggi della Svevia, nei suoi colli azzurrini, e nei profumi della Foresta Nera, dove i boschi scuri, odorano di funghi e di resina, una narrazione in prima persona volta a rievocare il passato, che avvicina molto il lettore al narratore e alla sua sensibilità di sedicenne immerso nelle fatiche adolescenziali, che si nutrono dell’insicurezza di sé e dell’ l’incertezza del futuro, in cui tutti possiamo riconoscerci nonostante il periodo storico differente. 


Non andavo mai a casa loro né loro venivano mai a trovare me. Un altro motivo della mia freddezza, forse, era che avevano tutti una mentalità estremamente pratica e sapevano già cosa avrebbero fatto nella vita, chi l’avvocato, chi l’ufficiale, chi l’insegnante, chi il pastore, chi il banchiere. Io, invece, non avevo alcuna idea di ciò che sarei diventato, solo sogni vaghi e delle aspirazioni ancora più fumose. Volevo viaggiare, questo era certo, e un giorno sarei stato un grande poeta. 


Man mano che si procede nella lettura si passa ad una narrazione che comincia a far intravedere il precipitarsi degli eventi, che annunciano l’oscurità che sta per ammantare la ridente e vivace Stoccolma. 


Il lungo e crudele processo che mi avrebbe portato a perdere le mie radici era iniziato e già le luci che avevano guidato il mio cammino si stavano affievolendo. 


Non si viene però afferrati dall’angoscia perché i terribili eventi che si stanno affacciando al presente dei due protagonisti vengono fotografati nella loro assurdità proprio attraverso i pensieri dei due ragazzi così presi, immersi e coinvolti nel fondamento del loro affetto amicale che i fatti storici finiscono per restare in secondo piano, sullo sfondo di cui parlavo all’inizio. 

Il lettore sa quale sarà la gravità e la portata di tali eventi ma sente, anche grazie alla profondità e al realismo descrittivo dell’ ambientazione sia fisica che temporale con cui l’autore racconta questo legame, che un affetto di tale portata in qualche modo dovrà per forza sopravvivere allo tsunami che sta per abbattersi sull’Europa e sul mondo. 

Il lettore spera quindi, perché è proprio la speranza che ha resistito nei tremendi anni del nazismo e della guerra. 

Una lettura questa che è stata assegnata a mio figlio quattordicenne per le vacanze natalizie e che mi è capitata quindi per caso, ma non a caso in questo periodo. 

Ho deciso di leggerlo ed è stata una scoperta, nella sua semplicità e brevità è stata una carezza, un tocco di tenerezza e nostalgia che mi hanno commossa. 

Adatta per questo sia a ragazzi che adulti. 

Da questo libro è stato tratto anche un film del 1989 di produzione francese per la regia di Jerry Schatzberg. 

Un racconto che commuove, per tutti coloro che desiderano ricordare e hanno ritrovato qualcosa o qualcuno nonostante pensassero di averlo perso per sempre. 


QUANDO TUTTO SEMBRA IMMOBILE di Roberto Emanuelli

QUANDO TUTTO SEMBRA IMMOBILE di Roberto Emanuelli

Titolo: Quando tutto sembra immobile
Autore: Roberto Emanuelli
Serie: Autoconclusivo
Genere: Narrativa
Narrazione: Prima persona
Tipo di finale: Chiuso
Editing: Ottimo
Data di pubblicazione: ottobre 2022
Editore: Sperling & Kupfer

TRAMA


Roma, 2022. Erba appena calpestata, pini mossi dal vento e sale. È di questo che profuma il quartiere in cui Daniele è cresciuto. Un quartiere di periferia, dove tutti si conoscono e si aiutano, ma dove basta un attimo per prendere la strada sbagliata. Ed è qui che, dopo tanti anni, Daniele ha deciso di tornare per cercare conforto: Margherita, l’unica donna che ha mai amato, se n’è andata. Lui è distrutto ma non riesce ad ammetterlo. Con nessuno, nemmeno con gli amici che pure sono sempre al suo fianco. Daniele è fatto così: ha un universo di emozioni nascosto in fondo al cuore, ma non è capace di esprimerlo. La vita è stata dura con lui e gli ha insegnato che, per non soffrire, i sentimenti vanno celati, soffocati. È come se fosse paralizzato, in trappola, mentre una guerra silenziosa lo agita nel profondo. Una guerra che non può vincere. Contro se stesso, contro Margherita, contro il suo passato. Ma è proprio la lotta con il passato che lo porta a intraprendere un lungo e doloroso viaggio. Ciò che scoprirà alla fine del cammino, però, è che la felicità è sempre stata a un passo da lui. Perché, a volte, bisogna restare immobili per andare avanti.

RECENSIONE


Alcuni libri hanno il pregio di riuscire a trasportarci in una dimensione che è o è stata nostra, evocando l’essenza di un momento vissuto, la sensazione di dejavu, la familiarità con tratti caratteriali che ci appartengono, momenti dell’esistenza che sono o sono stati fotocopia della nostra.

La scrittura di Roberto Emanuelli è in grado di far sentire i pensieri e gli stati d’animo dei suoi personaggi, nodi in gola, nostalgia, inquietudine, tenerezza.

È attraverso il protagonista del libro, Daniele, un personaggio tra i più autobiografici tra quelli dei suoi precedenti lavori, che l’autore ci fa sentire tutto quello che anche questo protagonista prova e che si percepisce essere anche molto vissuto dell’autore.

Più di tutte rispetto alle altre Daniele ci fa percepire l’immobilità citata nel titolo.


Forse, mi dico, dovrei farmi aiutare, dovrei parlare con qualcuno: forse potrei convivere meglio con quello che ho dentro, con questa mia sensibilità troppo grande per un mondo che corre e corre e mi fa sentire piccolo, inadeguato, in affanno, indietro. Mi immobilizza. Ecco, mi sento immobile, affacciato a una finestra, a guardare la vita degli altri che passa.


Un’immobilità a cui la storia d’amore con Margherita non sopravvive e che lo costringe a una continua lotta con sé stesso e con la sua incapacità a manifestare le emozioni, a vivere sempre con il freno a mano tirato, atterrito dalla paura, dalla sensazione di inadeguatezza.

Vi è mai successo di sentirvi così?

Fermi, prigionieri, come con i piedi nel fango, incapaci di uscire da una dimensione, dalla solitudine, dalla prigione dello spirito?

Come afferma Roberto Emanuelli, provare l’immobilità dell’anima, sentirsi intrappolati dai nostri stessi pensieri, non riuscire a riempire quel buco interiore che divora da dentro può rappresentare una condanna.

Chi l’ha provato su di sé, chi ne è tuttora prigioniero e chi ci sta combattendo lo sa bene.

Potendo assistere alla presentazione del libro di persona ho constatato che anche l’autore lo sa bene e ha voluto condividerlo con i suoi lettori proprio attraverso questo protagonista, un uomo in lotta con le sue paure, incapace di esprimere le proprie emozioni, al contrario impegnato perennemente a soffocarle, schiavo delle sue ossessioni unico appiglio in una realtà che sembra subire, e che sono l’unica cosa che lo aiutano ad andare avanti.

Daniele è stato un personaggio che mi ha suscitato sensazioni opposte: da un lato la fatica del sentire questo dolore così impregnante in vari aspetti della sua vita e così familiare per alcuni aspetti, dall’altro il fascino esercitato da un uomo così problematico.

Credo che quest’ ultimo aspetto sia da ricondurre al fatto che quella stessa tenebra che lo avvolge e lo tormenta è anche il tratto che ne decreta la grande fragilità e di conseguenza la spiccata sensibilità.

Un dualismo che credo sia ben rappresentato da questo estratto:


Non so farmi scivolare facilmente le cose di dosso. Non ne sono mai stato capace. Io che mi innamoro delle stelle in quel cielo blu e illuminato, mentre dentro di me è tutto troppo buio e pieno di guerra per raccontarlo.


Daniele si fa attraversare dalle cose che gli si radicano dentro, non sa farle scivolare via e con lui le sentiamo anche noi lettori, incastrati sempre più pagina dopo pagina nella profondità di questo abisso che si apre anche al nostro sentire attraverso i suoi pensieri, ossessivi, cupi a volte, ostinati.


Questa fitta profuma di stazioni abbandonate, colme di malinconia e solitudine. Io le sento le cose, quando arrivano, quando restano, quando se ne vanno: è la mia condanna.


Una condanna verso cui comunque egli non si dimostra mai passivo: la guerra che sente dentro la combatte strenuamente, usando tutti gli strumenti che ha a disposizione e che è in grado di esercitare nella forma di atteggiamenti ossessivi, fobie, piccole manie.

È una lotta contro se stessi quella che ci racconta l’autore in cui la storia del protagonista non è niente altro che il tentativo di sopravvivere a questa guerra.

Ben costruita la narrazione in un’alternanza di presente e passato attraverso cui riusciamo a conoscere meglio Daniele e a cogliere sempre di più questo suo essere intrappolato, fin dai tempi della sua formazione.

Questa infatti è anche una storia che parla di famiglia e di quanto abbia il potere di plasmarci così come l’ambiente in cui nasciamo.

L’ autore ci racconta della sua amata Roma, dei suoi angoli meno luminosi, quelli di periferia dove non tutti si salvano ma nemmeno soccombono.

Ci racconta della paura dell’abbandono, della solitudine, di un sogno dalle forme di torte e meringhe, di fratellanza, di amici e amori e uno degli aspetti che più mi hanno colpita, anche dei profumi.

Il profumo di un luogo, di una situazione, di uno stato d’animo:


Che non è mai solo il profumo vero di quella cosa. Il mare, per me, non odora solo di mare, ma anche di mandarino, di albero di Natale, di albe al campeggio, di foglie mosse dal vento, di promesse che sapranno resistere a tutto senza infrangersi mai.


Lo fa utilizzando passaggi degni della poesia più sensibile, tracce disseminate sulle pagine di un cammino di crescita personale, fatto di consapevolezza e trasparenza che poi si rivela anche dal punto di vista artistico.

È lo stesso autore a raccontarlo in occasione del firma copie del libro a cui ho assistito durante il quale con totale onestà spiega come “Quando tutto sembra immobile” è coinciso con un nuovo percorso rispetto ai suoi libri precedenti e che corrisponde anche  all’aver affrontato disturbi e difficoltà proprie di un’anima sensibile, emotiva, a volte fragile.

«Il problema siamo noi esordisce davanti alle sue lettrici in quell’occasione.»

Una consapevolezza di cui Daniele è l’emblema e attraverso cui l’autore ci sta anche dicendo che è una lotta certo, ma una lotta che si può vincere, perché a forza di provarci dall’ immobilità si può uscire.

PROF, POSSO ANDARE IN BAGNO? di Enrico Galiano

PROF, POSSO ANDARE IN BAGNO? di Enrico Galiano

Titolo: Prof posso andare in bagno?
Autore: Enrico Galiano
Serie: unico spettacolo
Genere: Commedia
Spettacolo teatrale
Tipo di finale: Chiuso
Data: 9 Dicembre 2022
Produttore: Ascom

TRAMA


Enrico Galiano accompagna il pubblico in un viaggio speciale tra storie vissute in classe e vere e proprie lezioni di storia, letteratura e grammatica: per portare la scuola fuori da scuola, con l’idea che possa essere ancora un luogo di bellezza.

RECENSIONE

Ormai appassionata ai lavori di Enrico Galiano recensito il suo ultimo
libro, intervistato durante una sua presentazione, l’ultimo tassello che mi
mancava era assistere al suo spettacolo teatrale PROF, POSSO ANDARE IN BAGNO?

Potevo farmi scappare l’occasione?

Ovviamente no, ecco perché l’ho seguito in quel di Sedegliano presso il
teatro Plinio Clabassi venerdì 9 dicembre in una piacevolissima serata.

Come sempre è capace di fare, il nostro professore ha saputo coniugare risate e
momenti di riflessione in uno spettacolo su misura per giovani e meno giovani (nel
linguaggio odierno per generazione Z e boomer) in alternanza con momenti
musicali ad opera dell’amico e co-protagonista Pablo, cantautore forse
incompreso ma assai comunicativo.

Enrico Galiano ha strutturato lo spettacolo come una giornata scolastica,
con suddivisione oraria per materie e ovviamente l’irrinunciabile ricreazione.

Non svelerò gli argomenti delle lezioni per non togliere il gusto della
scoperta a chi vorrà assistere allo spettacolo, posso dirvi però che le lezioni
hanno saputo tenere accesa l’attenzione, strappato innumerevoli risate e
offerto un’interessante occasione di riflessione su temi di una certa
importanza.

A testimonianza che si può parlare di tutto anche con leggerezza riuscendo a
raggiungere un pubblico eterogeneo, compresi i ragazzi (molti, infatti, gli
alunni della scuola primaria e media del paese presenti in sala con i loro
insegnanti) con un linguaggio semplice ma incisivo, attuale e anche irriverente
al punto giusto.

Enrico Galiano passo dopo passo sta dando vita e promuovendo con mezzi disparati una visione di scuola onesta, inclusiva, rispettosa dell’individualità di ognuno che prova a tirare
fuori dai ragazzi la luce che hanno dentro, una scuola insomma che chi è
insegnante come me vorrebbe vivere e che tutti vorremmo aver frequentato.

Nota finale ma importante, le offerte in caso di ingresso libero o un
eventuale costo dei biglietti per assistere al suddetto spettacolo vanno in
beneficenza per l’associazione STILL I RISE (https://www.stillirisengo.org/)
che anche grazie alla consistente cifra di 55.000€ finora raccolta tramite lo
spettacolo di Enrico Galiano, costruisce scuole nei paesi del terzo mondo.

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Quando arte e solidarietà si incontrano un po’ si realizza la magia, ed è
così che anche una sala teatrale diventa scuola.

Perché scuola è anche e soprattutto dove si insegna che il bene collettivo è
patrimonio di tutti, e a volte per realizzarlo bisogna osare, perché, citazione, “a volare
troppo bassi si muore.” 

SCUOLA DI FELICITA’ PER ETERNI RIPETENTI di Enrico Galiano

SCUOLA DI FELICITA’ PER ETERNI RIPETENTI di Enrico Galiano

Titolo: Scuola di felicità per eterni ripetenti
Autore: Enrico Galiano
Serie: Autoconclusivo
Genere: Narrativa
Narrazione: Prima persona
Tipo di finale: Chiuso
Editing: Ottimo
Data di pubblicazione: 30 agosto 2022
Editore: Garazanti

TRAMA


Arriva un momento in cui si è convinti che non ci sia più bisogno di imparare. Ma basta un attimo per capire che le nostre sicurezze, spesso, sono solo un modo per far tacere la paura. Perché vivere intensamente è questo che fa: paura. E sono proprio i giovani a metterci davanti agli occhi una simile verità. Sono loro a rendere chiaro e lampante ciò che nella vita si è sempre saputo, ma non si sapeva di sapere. O ci si rifiutava di sapere. Capitolo dopo capitolo, Enrico Galiano ci porta a scuola di felicità. Una scuola in cui le lezioni sono piccole e grandi allo stesso tempo – sull’amore, il coraggio, la libertà – e impartite non da chi siede dietro la cattedra, ma dai ragazzi stessi. Scopriremo così che hanno ragione loro, quando ridono fino alle lacrime mentre gli adulti li osservano seri. Hanno ragione, quando amano fino a stare male mentre gli adulti li guardano con un sorriso accondiscendente. Hanno ragione, quando cadono, quando non capiscono, quando tartassano di domande finché ottengono una risposta chiara. Quando si arrabbiano perché non si sentono ascoltati. Grazie ai ragazzi, ci si rende conto che, per quanta strada si sia fatta, per quanta esperienza si sia accumulata, si è sempre eterni ripetenti. Eterni ripetenti alla scuola della felicità. Dopo “L’arte di sbagliare alla grande”, Enrico Galiano torna con un saggio che è come una giornata di sole dopo mesi di pioggia. Ci fa entrare nella sua classe ad ascoltare le voci e le storie di ragazze e ragazzi, e ci trasmette un’inaspettata leggerezza: leggendo queste pagine, nasce, spontanea, una voglia improvvisa di cominciare a vivere davvero.

RECENSIONE


La parola, uno strumento straordinario. 

Quante cose si possono fare con le parole: usarle per amare o per far del male, per costruire o per distruggere, per sognare, per capire, per conoscere. 

Ce lo racconta in modo molto affascinante e divertente un uomo che ha fatto di questo strumento pane quotidiano, mezzo per trasmettere, ma soprattutto per condividere, per tirare fuori conoscenze e attitudini, capacità e paure, passioni, idee e riflessioni. 

Il professore Enrico Galiano, (con una L come giustamente egli stesso spesso specifica) fa della parola seme che possa germogliare nei ragazzi a cui insegna e perché no anche nei cuori dei lettori a cui si rivolge con le pagine dei suoi libri. 

Insegnante e scrittore, dalle grandi capacità comunicative utilizzate anche in modo ironico ma “sempre sul pezzo” anche sui social. 

Ed è proprio perché utilizza mezzi disparati per comunicare pensieri e riflessioni sul nostro presente, sul nostro modo di vivere, sull’educazione, che è il suo mestiere, lo farei rientrare a pieno titolo nella categoria dei divulgatori: ecco secondo me, Enrico Galiano tra le tante cose è anche un divulgatore di felicità. 

Questa parola, felicità, è infatti presente in alcuni dei suoi titoli, l’ultimo dei quali SCUOLA DI FELICITÀ PER ETERNI RIPETENTI è la raccolta di una serie di lezioni vertenti su temi e argomenti disparati che, sebbene inizialmente non sembrerebbe, hanno invece molto a che vedere con la felicità. 

L’autore analizza insieme al lettore una serie di parole partendo dalla loro etimologia per arrivare attraverso le esperienze vissute nelle sue classi e le riflessioni dei suoi alunni, i loro punti di vista e la loro percezione del mondo che si trovano a vivere, a delle riflessioni non solo su tematiche di una certa importanza ma anche sul modo differente in cui gli adulti sembrano approcciarvisi rispetto a loro. 

È così da piccole lezioni sul coraggio, sul voler bene, sul destino, sulle macchie, sulla lentezza e tante altre, Enrico Galiano riapre quelle porte inevitabilmente chiuse con l’ingresso nella vita adulta, e ci fa vedere attraverso di esse da un altro punto di vista, quello che inaspettatamente e con meraviglia sono gli stessi ragazzi delle medie incontrati nel suo cammino di insegnante a mostrarci.  


Sapete quante cose potremmo imparare da loro? La follia, per esempio. Noi che non impazziamo mai, e proprio per questo rischiamo sempre di impazzire. 


E se le parti fossero invertite e davvero fossero in realtà i ragazzi ad avere molto da insegnare a noi adulti e non viceversa? 

Credo che l’educazione e la formazione in realtà siano sempre e in ogni caso uno scambio reciproco, come solo può essere un’attività che implica una relazione umana base imprescindibile di ogni apprendimento, ed è per questo che nell’atto educativo molto si dà ma anche molto si riceve dai propri alunni. 

In queste pagine l’autore lo racconta in modo a volte scanzonato ma sempre centrato, senza mai perdere di intensità, con una narrazione che scorre via come il corso di un fiume in cui il lettore si fa trasportare dalla corrente dei pensieri che mano a mano salgono in superficie. 

Non è un fiume placido anche se all’apparenza potrebbe sembrarlo. 

I suoi contenuti partono da spunti interessanti come poesie o citazioni varie così come da episodi di vita quotidiana assunti nella cosiddetta normalità. 

Eppure da essi si giunge sempre a una serie di  domande e risposte dal peso specifico non indifferente, affrontando questioni anche spinose, di quelle che spesso si preferisce chiudere a chiave in un cassetto. 

Ed è soprattutto questo che personalmente ricerco in una lettura, uno scuotimento che risveglia la coscienza troppo spesso assopita dal tram tram quotidiano che finisce per fagocitare quella parte più intima di noi, fatta di aspirazioni, sogni, desideri e progetti. 

Non è una lettura che lascia indifferenti, un po’ come fanno con lui i suoi alunni ponendogli domande spiazzanti su temi esistenziali, Enrico Galiano gira queste stesse domande anche a noi lettori, spiazzando anche noi, presentando sotto i nostri occhi questioni importanti, scomode, dimenticate. 

La felicità che abita il titolo di questo libro ce l’abbiamo? 

La inseguiamo? 

La sappiamo riconoscere? 


È per questo che la felicità è per i coraggiosi. È per questo che oltre una certa soglia può diventare insopportabile, portare alla follia. Ed è per questo che, più di tutto, quello che ti fa sentire è: fragile. Vulnerabile. In pericolo, perfino. 


Oltre alle citazioni letterarie e filosofiche, analisi di poesie, versi di canzoni, l’autore utilizza anche aneddoti personali che sono il plus della lettura perché Enrico Galiano riesce ad amalgamare tutto con naturalezza. 

Partendo dalle epigrafi contenenti tali citazioni ci porta a riflessioni e considerazioni anche intime passando attraverso piccole realtà del quotidiano suo e dei suoi alunni, in cui possiamo immergerci con curiosità e a volte riconoscere noi stessi. 

Scuola di felicità per eterni ripetenti è un libro denso, da maneggiare con cura perché scuote lo spirito, come un abito tirato fuori dall’armadio che scrolliamo per fargli riprendere forma, fa riflettere sul nostro presente e per questo trasmette la bellezza delle cose non semplici. 


La bellezza è semplice, ma non è facile. 


Noi adulti siamo dimentichi di come era sentire, vedere, sognare e vivere da ragazzi. 

Una lezione che è sempre bene ripassare, non per tornare giovani, ma per riuscire a guardare ancora con gli occhi che avevamo da giovani la realtà del nostro presente, tornare ad utilizzare sfumature là dove finora ci eravamo accontentati di usare solo gli stessi pochi colori. 

Per non uscire dai confini del conosciuto, del dovere, della sicurezza, per restare asciutti, volendo utilizzare questo bel passaggio dell’autore. 


E cioè che la vita è una pioggia, che anche se sotto l’ombrello si sta asciutti e protetti, i momenti migliori saranno sempre quelli in cui te ne freghi, chiudi l’ombrello e ti metti a correre. I momenti in cui ti lasci bagnare. I momenti in cui ti lasci vivere. 


Siamo tutti eterni ripetenti, e quando la materia è la felicità, tornare a scuola è d’obbligo. 

GEOMETRIE VARIABILI di Pitti Duchamp

GEOMETRIE VARIABILI di Pitti Duchamp

Titolo: Geometrie variabili
Autore Pitti Duchamp
Serie: autoconclusivo
Genere: Narrativa, Contemporary Romance
Narrazione: Terza persona
Tipo di finale: Chiuso
Editing: Ottimo
Data di pubblicazione: Ottobre 2022
Editore: Words Edizioni

TRAMA


Cosa succede se, all’improvviso, vengono meno tutti i punti di riferimento della tua vita?

Viviana, manager in carriera, da un giorno all’altro si trova costretta a fare i conti con tutto ciò che ha lasciato in Italia quando, otto anni prima, è andata via. Soprattutto con la figlia Atena, una dodicenne troppo perfetta per avere la normale vita di un’adolescente, che viene seguita come un’ombra dall’amica Celeste, talentuosa ma troppo ingenua, a sua volta provata dalla perdita della madre e dal rapporto col padre Silvano.

I quattro si trovano così a dover circoscrivere un nuovo concetto di famiglia, perdendo pezzi e guadagnandone altri, ricomponendosi in figure geometriche più solide e sfaccettate. E se la sfortuna, per una volta, lasciasse il passo al destino e a una seconda occasione per essere felici?

RECENSIONE


L’amore concede sempre seconde possibilità.


Il significato di questo romanzo potrebbe racchiudersi in questa frase, un richiamo a pochi ma fondamentali concetti. Da una parte l’amore, da concepire nelle sue estensioni più ampie, ovvero l’amore genitoriale, quello tra marito e moglie, tra amiche, ma anche l’amore verso la vita, verso sé stessi.

Geometrie variabili, ultima opera di Pitti Du Champ, conferma con semplicità la complessa e raffinata sensibilità di un’autrice bravissima, capace di offrire una storia che riassume moltissimi aspetti che segnano la vita di tutti noi, quasi come fosse il percorso simbolico di tutte le fasi che un individuo è chiamato a percorrere durante la propria esistenza: la crescita, l’evoluzione personale, la perdita di chi amiamo, la faticosa elaborazione del lutto, il primo amore, le prime delusioni, i laceranti sensi di colpa, la gioia di poter ricredere alle proprie certezze, il bruciore del tradimento, la rinascita emotiva, il valore incommensurabile dell’amicizia, il complesso universo della famiglia, l’umiliazione sociale, il senso di protezione verso chi ha più bisogno di noi, la solitudine, l’incapacità di amarsi, l’inganno delle apparenze, il pregiudizio e l’incomunicabilità.
Quante emozioni in questa storia così vera, così toccante e autentica, che offre quattro personaggi disegnati ad arte, in grado di rispecchiare le molteplici sfumature della dimensione umana.


«Atena finirà per odiarti se non ti deciderai a stare un po’ con lei. Io e te ormai non cambieremo, ma abbiamo lei a cui pensare. Se non vuoi farlo per me, smetti con le trasferte almeno per lei» le sussurrò Cristiano dopo l’amplesso.


Viviana, Atena e Cristiano. Madre, figlia e padre, rispettivamente. Una famiglia disfunzionale, come tante. Un matrimonio intiepidito dalla distanza fisica e emotiva; il profondo legame di una figlia con un padre amato e sempre disponibile ma, purtroppo, poco in ascolto; un rapporto madre figlia inesistente.  Se si dovesse riassumere in poche parole, una famiglia mancante delle basi, che non riesce a soddisfare i bisogni primari e basilari dei suoi componenti, e che lascia più spazio al conflitto che alla comunicazione, o al senso di protezione e accudimento. Eppure, nonostante le difficoltà, le incomprensioni, i silenzi e le assenze una famiglia a cui si riesce a volere bene, soprattutto grazie al personaggio di Atena, adolescente orgogliosa e coriacea, capace di odiare la madre quanto di sacrificarsi per proteggere l’amica Celeste.


Amare è da gente forte, e più persone e cose si amano, più si diventa potenti.


Celeste, tanto fragile e insicura, forse il personaggio che intenerisce e commuove di più in questa storia meravigliosa. Accade di commuoversi per le sue paure, il dolore di ragazzina ancora troppo acerba e indifesa per elaborare una perdita troppo grossa per lei.


Il dolore aveva preso così tanto spazio nel suo corpo, che solo il cibo liquido riusciva a trovare pertugi per passare allo stomaco. Era questione di misure.


Accanto a lei, il padre Silvano, “comodo” per il suo stile di vita, le sue leggerezze, il suo amore per una figlia da accudire e poco accudita, il suo amore per le piante. Lo si potrebbe anche detestare, ma Silvano si ama lo stesso, perché tanto ingenuo quanto accogliente.


Celeste scosse la testa. «Se io avessi ancora mia madre non mi staccherei da lei neanche cinque minuti» la rimproverò. «Se io avessi mio padre, idem. Ma non ci sono più, facciamocene una ragione e proviamo a sopravvivere.»


Due adolescenti rimaste prive degli affetti centrali, due adulti incapaci di capirle. Eppure, a volte la vita mette di fronte a noi dei cambiamenti che stravolgono, ribaltano ciò che conoscevamo gettandoci nell’incertezza, prove durissime in grado di spostare sicurezze, e forse per questo così potenti da creare nuovi equilibri, far crescere, evolvere.

Un processo che coinvolge tutti i quattro protagonisti, uniti tra loro da legami sempre più indissolubili, formati da perdite e arricchiti di nuovi elementi: Atena che perderà sempre più strati della spessa corazza imparando a fidarsi del cuore; Celeste che raccoglierà quei pezzi, frammenti preziosi di un nuovo corpo e una maggiore consapevolezza; Viviana che cambierà pelle, divenendo più mamma e compagna; Silvano che imparerà l’arte dell’accudimento verso gli esseri umani, oltre che quello del suo mondo fatto di terra ed esperimenti botanici. Ognuno di loro accorcerà distanze, testerà terreni impervi fino a entrare, ognuno a proprio modo, nella bellezza della vita, aprendo il cuore e schiudendo porte rimaste chiuse.

Le geometrie del cuore è vero variano, non hanno una forma prestabilita, assumono dimensioni e contorni tutti loro, che riempiono spazi lasciati vuoti, innescano incastri anche improbabili ma non per questo meno credibili, fino a creare un universo nuovo, colorato e tridimensionale.


Lei voleva essere al centro del mondo di sua madre. Per una volta si concesse un capriccio.


A rendere questo libro assolutamente sublime lo stile elegante di Pitti Duchamp, esploratrice dell’animo umano come poche, attenta indagatrice del mondo di complicati adolescenti ma anche ingenui adulti. I quattro punti di vista di Atena, Celeste, Silvano e Viviana raccontano con acume ogni tonalità, spigolo, lato, avvallamento della sfera emotiva dei protagonisti.
Un viaggio da non farsi mancare, assaporando ogni pagina, dialogo, parola, silenzio ed emozione.

VIVA LA VIDA di Pino Cacucci

VIVA LA VIDA di Pino Cacucci

Titolo: Viva la vida
Autore: Pino Cacucci
Serie: Autoconclusivo
Genere: Narrativa
Narrazione :Prima persona
Tipo di finale: Chiuso
Editing: Ottimo
Data di pubblicazione: 16 gennaio 2014
Editore: Feltrinelli Editore

TRAMA


Un monologo fulminante che ripercorre i patimenti della reclusione forzata di Frida Kahlo, i lucidi deliri artistici di pittrice affamata di colore, la relazione con Diego Rivera. In un Messico quanto mai reale e al tempo stesso immaginifico, Pino Cacucci mette in scena la sintesi infuocata di un’esistenza, la parabola di una grande pittrice la cui opera continua a ottenere altissimi riconoscimenti. In poche pagine c’è il Messico, c’è il risveglio dell’immaginazione, c’è la storia di una donna, c’è la rincorsa di una passione mai spenta per un uomo. L’ardente esistenza di Frida Kahlo dal vertice estremo dei suoi giorni. Un breve libro che contiene una storia immensa.

RECENSIONE


Una citazione letta recentemente diceva: se l’aver sofferto vi ha reso cattivi, l’avete sprecata. 

La sofferenza fisica, quella interiore sono paludi che nessuno vorrebbe esplorare ma dovendo trovarsi ad averne a che fare non sappiamo cosa queste tireranno fuori. 

Il dolore può essere seme da cui far germogliare qualcosa d’altro che diversamente abbia a che fare con la bellezza, ma può fare anche il contrario, inaridire, indurire, chiudersi.

Una buona fetta di prodotti artistici se ci pensiamo ha avuto origine così, da stati di sofferenza di diversa natura. 

È da grandi tumulti interiori, sensibilità estreme, anime inquiete e bisogno di esprimere queste tempeste che hanno preso vita romanzi, quadri, sculture, canzoni, poesie di rara bellezza e immortalità, opere globalmente riconosciute come patrimonio di tutti. 

Anche Frida Kahlo fa parte di questa fetta perché è riuscita a trasformare la propria sofferenza nelle opere che ci ha regalato attraverso le sue pennellate, soprattutto negli autoritratti dal forte impatto emotivo, evocativi, quasi sconvolgenti. 


Perché davanti ai miei quadri è molto più facile restare sconvolti che affascinati. 


È lei stessa a raccontare i suoi demoni, i suoi stati d’animo in un monologo intenso, intimo e vivo nelle parole di Pino Cacucci che ci regala in questo breve libro il ritratto di una donna che amava profondamente la vita tanto da celebrarne la bellezza anche se lei stessa ne è stata largamente privata. 

Il motto che l’ha sempre l’accompagnata e che dà il titolo al libro, Viva la vida! 

Quale modo migliore e irriverente, coraggioso e autentico di celebrarla se non quello di venire a patti con la morte, una presenza costante nella vita di Frida fin da giovanissima. 


Quanta passione ci ho messo, credendoci con tutta me stessa. Ma alla fine era, ed è, soltanto il mio modo di distrarre la Pelona, di irridere la Morte, di beffarla e corteggiarla, di scendere a patti con lei, perché ogni tanto vorrei che mi prendesse tra le braccia per darmi requie, un po’ di sollievo al dolore… Il sollievo definitivo. 


Nonostante questo libro sia breve vi è celata un’intensità che stordisce perché fornisce un ritratto a tutto tondo di questa donna passionale e appassionata, legata alle proprie radici, che incarna la sua terra il Messico con tutte le sue sfaccettature.

Testimone e artefice della rivoluzione politica del suo paese e del suo tempo, capace di raccontare attraverso sé stessa la tenacia dello restare aggrappati alla vita, andare avanti comunque e sempre, senza mai abbandonare la capacità di sognare, dare materia alle nostre passioni lucidamente, senza ipocrisie. 


L’unica certezza è che la vita non avrebbe senso, se smettessi di sognare. 


La Casa Azul prigione e rifugio, il desiderio di non arrendersi ma soprattutto di non rinunciare alla propria autenticità, il desiderio di maternità, l’amore consumante  per Diego Rivera marito fedifrago e amante irrinunciabile sono raccontati come se fosse Frida stessa a parlarci, a mettersi a nudo senza veli, diretta, affilata, vivida. 

Se c’è una cosa che mi ha sempre colpito nelle immagini fotografiche di questa artista è la profondità del suo sguardo, occhi che sono come abissi. 

L’autore è riuscito a raccontare questi abissi in un’opera che nasce come sceneggiatura teatrale, progetto che poi non vedrà la luce, ma che fa sentire il lettore proprio così, uno spettatore in ascolto quasi reverenziale, al cospetto di una donna che racconta di sé non dal palcoscenico di un teatro, ma dal proprio letto in una piccola stanza i cui oggetti parlano del suo dolore ma che lei trasforma in strumenti per creare qualcosa di bello. 

È da lì immobilizzata in un busto che le consente di dipingere praticamente solo se stessa riflessa nello specchio sopra di lei, il lettore entra in quello specchio e riesce a vedere il mondo interiore di questa donna così ferocemente attaccata alla vita da far sentire questo desiderio come un urlo, quello che si traduce nel motto Viva la vida! 


Quel 17 settembre 1925, la Morte mi ha fissato negli occhi, ha osservato il mio corpo nudo, insanguinato, coperto di polvere d’oro, e quando stava per protendere le braccia verso di me, quando ho sentito il suo alito gelido… ho lanciato quell’urlo che non poteva uscire dalla gola di una moribonda, un urlo di rabbia, un urlo di amore per la vita che non volevo abbandonare a diciott’anni, ho urlato il mio “¡ Viva la vida!”, e la Pelona, assordata, è rimasta stupefatta almeno quanto i vivi che mi si accalcavano attorno. 


Tralasciando la popolarità di questa figura che è diventata soprattutto dagli anni 90 in poi un’icona, un prodotto dal fascino intramontabile, la vera forza di questo libro è stata quella di averci raccontato in modo intimo e accorato la donna che si cela dietro queste celebri sopracciglia ad ali di gabbiano nero, come era solito chiamarle il marito. 

Ed è questo che io cerco e che mi auguro troverete se vi approccerete a questa lettura, la persona e non il personaggio. 

Ma soprattutto il suo messaggio, tradotto in queste semplici parole: 


Ma a che mi servono le gambe, se ho ali per volare…