Intervista a Daniele Mencarelli

Intervista a Daniele Mencarelli

Annalisa Sinopoli ha incontrato per noi Daniele Mencarelli, Premio Strega 2020. Ecco il suo racconto:

A metà febbraio ho avuto il piacere di assistere alla presentazione del nuovo libro di Daniele Mencarelli, Fame d’aria, tenutasi presso il Centro culturale Casa Candussi Pasiani di Romans d’Isonzo all’interno della rassegna “Romans d’autore” che ha accolto quest’anno autori più o meno famosi in delle piacevoli serate dedicate alla letteratura.

Lo riconosco, non è il miglior modo di iniziare un’intervista ma, visto che se ne è parlato proprio durante la presentazione, esordisco nei confronti del gentilissimo e disponibilissimo Daniele Mencarelli confidandogli che la copertina di questo libro non mi ha propriamente invogliata all’acquisto, provocandomi un leggero senso di inquietudine.

Egli stesso ne è consapevole definendola anti-marketing ma assolutamente dentro al romanzo” ed è una scelta non solo voluta ma che, cosa che io stessa riconosco e mi affretto a comunicargli, si rivelerà perfetta dopo aver letto il contenuto del romanzo.

Giungiamo quindi insieme alla saggia conclusione che nemmeno le copertine andrebbero giudicate prima di aver letto il libro.

Ed è così che superiamo il mio infelice esordio a questa intervista, che inizia così:

Daniele Mencarelli insieme a Annalisa

Come è nato fame d’aria? Qual è stata la molla che le ha fatto decidere di scrivere proprio questa storia?

Sono stati più motivi: il primo diciamo è l’aver vissuto per tanti anni la neuropsichiatria infantile e quindi aver visto quanto i disturbi del neuro sviluppo, in particolare l’autismo, siano sempre più drammatici per l’economia umana e finanziaria e più frequenti.  Poi mi interessava affrontarlo dal punto di vista maschile, quello paterno in particolare, che è un punto di vista che di solito sfugge al tema del disturbo, che non è malattia perchè ha un decorso diverso, come dicevamo prima la malattia disegna una parabola mentre il disturbo no.

Poi perché credo che vada riannodato un po’ il lavoro della scrittura, della letteratura, dell’intellettuale a quello che è la realtà che viviamo e che viene sotto narrata rispetto ad altri fenomeni che invece sono sovraesposti.

Il libro è permeato fortemente dal senso di solitudine e di abbandono in cui versa Pietro anche la una famiglia non gli è di supporto: il padre Di Pietro dice che non sa gestirlo.

Secondo lei ci sono nella disabilità che fanno più paura di altre?

Beh sì, le forme non verbali e le forme in cui, come quella che racconto di Jacopo, in cui l’individuo appare (perché è solo evidentemente un’apparenza) come un universo invalicabile, impenetrabile. Inoltre nella relazione con queste forme di disabilità conta molto anche la propria generazione tanto più si è anziani tanto meno si è abituati a questa relazione.

Come lei ha spiegato in realtà poi nella storia l’empatia, l’affetto, il tentativo di aiutare quest’uomo arrivino da perfetti sconosciuti piuttosto che da chi è vicino come amici, familiari, colleghi.

Perché secondo lei?

Secondo me va recuperata quella dimensione di umanità che travalica i recinti del conosciuto del noto. In fondo è un elemento proprio costitutivo della mia poetica e soprattutto anche della mia biografia, il fatto che il più delle volte l’aiuto imprevisto è l’aiuto che ti salva la vita e che in fondo l’idea che l’aiuto possa provenire soltanto dagli elementi noti della nostra esistenza, mi permetto di dire, è una visione dell’esistenza stessa abbastanza microscopica.

Spesso l’aiuto che dà l’individuo genera stupore innanzitutto in egli stesso perchè si riscopre dentro una grandezza che non ricordava d’avere.

L’ultimo libro della trilogia, “Sempre tornare” è dedicato agli sconosciuti perché nella mia vita gli sconosciuti sono stati una fonte educativa importante tanto quanto quella familiare.

Ciò non vuol dire diminuire quella familiare, esse non sono in opposizione, ma al di fuori, attraverso gli sconosciuti ho potuto confermare quello che la mia famiglia m’ha detto e cioè che non è vero che il mondo è composto da cattivi.

E’ una dimensione diversa, se non ritroviamo questa dimensione di fiducia verso l’alterità il rischio è avere un mondo fatto di piccoli recinti in cui ci sentiamo protetti solo dentro questo recinto, ma è una protezione profondamente falsa perché poi basta ecco pure un microbo dall’altra parte del mondo come il covid a far saltare qualsiasi recinto.

Emerge inoltre nel libro una denuncia alle difficoltà di tipo economico, burocratico e psicologico in cui una famiglia che deve accudire un caro diversamente abile incappa: è ancora lontano secondo lei, che si tratti di disabilità o di genitorialità, uno scenario in cui lo stato effettivamente sarà un supporto ai problemi sociali?

Io credo che oggi sia più distante di ieri perché i numeri sono in aumento, l’abbiamo detto prima e i fondi sono in diminuzione: questi due elementi sono inversamente proporzionali.

La psichiatria adulta riceve il 3% della sanità e la neuropsichiatra infantile uno zero virgola di questo 3%. Nel romanzo in fondo soccorre, corre in aiuto del protagonista non la politica, ma l’umanità. Secondo me se noi in questo paese continuiamo ad aspettare la politica come risposta e non pensiamo a forme di organizzazione diverse rispetto a quella centralizzata (parlo soprattutto appunto dell’amministrazione centrale) rischiamo di perdere, se aspettiamo loro come si dice, siamo spacciati.

Mi ha colpito quella parte in cui Pietro dice che lui vive per quel momento in cui passa dal sonno allo svegliarsi, come se lui, in quei pochi secondi non ha ancora riconosciuto la propria identità: se l’esistenza è una sorta di prigione quindi il mondo onirico invece può essere una scialuppa di salvataggio?

Senz’altro, molti individui gravati da un destino come quello di Pietro rispetto al figlio e privati di qualsiasi sostegno, di qualsiasi supporto economico ed affettivo vivono esistenze difficili, vivono dentro grandi infelicità questo è un dato di fatto.

Però mi affascina molto, e prima o poi ne scriverò, il mondo onirico e anche proprio quest’idea che il mondo onirico diventi per molti una vita di fuga rispetto al mondo reale.

C’è alla fine comunque un messaggio di salvezza: può esserci salvezza anche per una situazione come quella Di Pietro e di Jacopo?

C’è salvezza nella sincerità e nella condivisione dei problemi, perché in fondo quello che scopriamo è che Pietro probabilmente non ha mai condiviso neanche con la moglie la crisi economica che in cui è precipitato. E c’è salvezza e in quello che dicevo prima, in un soccorso orizzontale, in un aiuto che va al di là dell’attesa dell’aiuto istituzionale e politico, perché appunto quello rischia sempre di più di arrivare in ritardo.

 Ci salviamo tra esseri umani, non tra istituzioni ed esseri umani.